A Genova non c’erano solo i black block

Che cosa non ha funzionato nella comunciazione, nei media durante la manifestazione del 21 luglio? Mario Agostinelli racconta quei tragici momenti

Avevo sfilato con il corteo promosso dai sindacati di tutta Europa a Nizza, nel dicembre 2000. Mi aveva allora colpito l’assenza degli abitanti e l’incredibile scelta delle autorità francesi di farci marciare dentro quartieri svuotati in anticipo, così da rendere impossibile alcun contatto tra "specialisti" delle manifestazioni e cittadini "incidentalmente" ospitanti.
A Genova non mi ha quindi sorpreso che Berlusconi avesse deciso da par suo il passo successivo: non più una città indifferente, ma una città in stato d’assedio, probabilmente deserta dei suoi abitanti perché impaurita. La logica di rendere fisicamente inagibile il diritto di parola laddove lo prendono i potenti del mondo ha a che fare con la messa in campo conseguente di un formidabile apparato di polizia e di persuasione. E magari con l’accettazione, non solo metaforica, dello scontro da parte di frange di movimento che non hanno ancora capito che la cosa più inquietante da sostenere per il potere è che sia costretto ad alzare barriere, non a respingere assalti. Nel conto di un disegno autoritario e di restringimento della democrazia, c’è evidentemente anche l’uso più sapiente e raffinato dell’immagine: prima, durante e dopo l’evento. E’ quanto è puntualmente avvenuto.

È bene allora ritornare, dopo l’evento, su quanto è stato e su quanto, invece, hanno cercato di far credere, ristabilendo un minimo di equilibrio tra l’informazione di chi ha costruito la violenza e l’informazione di chi l’ha subita soltanto. Solo così si possono riportare al centro le motivazioni che hanno mosso oltre trecentomila persone – almeno cinquemila della quali organizzate dalla Fiom e dalla Cgil lombarda – prima del corteo, cioè prima del suo depotenziamento attraverso le immagini delle violenze ripescate ossessivamente dalla periferia della manifestazione o dagli scontri del giorno precedente.

Alle 16.00 del 21 luglio arrivo al distributore all’angolo di Via Casaregis, davanti a Piazzale Kennedy, lo stesso di cui Giulietto Chiesa parla a pagina 64 del libro citato. Ci arrivo dopo che i 37 pullman della Cgil Lombardia hanno scaricato grappoli variopinti di lavoratrici, lavoratori e studenti accuratamente registrati ed istruiti dai responsabili dei torpedoni con la stessa meticolosità delle gite scolastiche o parrocchiali. Qualche scarto verso le viuzze o le spiagge di Boccadasse, per poi comporre un corteo coloratissimo ma guardingo, che segue la testa presa dai personaggi più noti rinfoltendosi di giovanissimi, che avvertono sicurezza dietro le bandiere sindacali.

Al mio cellulare arriva la chiamata di un compagno rimasto a casa, davanti alla Tv. Mi avvisa che la cronaca è tutta dedicata agli scontri dei black block, che noi non riusciamo a vedere e mi raccomanda di non raggiungere Piazzale Kennedy che, a suo dire, sta bruciando, come ci conferma un fumo denso che si condensa lontano. Mi avvicino agli altri dirigenti sindacali e assieme alla Fiom di Savona, casualmente confluita in quel punto, organizzo quel cordone di ragazzi e ragazze citato da Chiesa. Un cordone rado a tre file, che cerca di tenere separato il corteo da quello che accade nella piazza presidiata da ingenti forze di polizia apparentemente immobili. Presto viene disturbato da quattro ragazzotti inglesi che ci accusano d’essere la "nuova polizia" e che non si allontanano nemmeno quando chiediamo a quelli che dovrebbero essere i responsabili dell’ordine di intervenire. In effetti, non solo non c’è intervento,ma, al primo accenno di sfondamento verso i manifestanti di un gruppo di facinorosi coperti di indumenti in nero, parte una pioggia fitta di lacrimogeni sul corteo che, preso di sorpresa, sbanda, fatica a superare il distributore e si spezza. Le linee degli uomini in assetto antisommossa si aprono e si chiudono sui gruppi di "Black block" totalmente estranei alla sfilata, che sembrano non subire disfatta alcuna. I quattro inglesi scompaiono, il cordone viene completamente travolto; fumo, sostanze irritanti e sbarre di ferro, tolte da transenne vicino al distributore, ci piovono addosso. Lo smarrimento e l’angoscia sono grandi, terribili.

Assieme ad alcuni parlamentari cerco poco dopo di richiamare l’attenzione dei poliziotti, ma essi, mentre da una parte tagliano il corteo, dall’altra lo comprimono al punto da farlo schizzare verso portoni che fortunatamente si aprono o verso le scalinate che si ingolfano pericolosamente di una calca terrorizzata. Quando il corteo spezzato si ricompone duecento metri a monte sotto le insegne sindacali e con la confluenza di svariati striscioni (Liberazione, Il Manifesto, Lilliput, Arci, Rifondazione, Attac, Manitese), si muove da una via laterale una colonna di mezzi che potrebbe imbottigliare ed isolare un troncone di manifestanti. Alcuni di noi cercano di evitare il peggio e, dopo che i mezzi desistono dal procedere, finalmente la coda di quel che era il corteo di partenza – almeno centomila persone – si attesta sul lungo mare in una lunga attesa, con una autodisciplina impressionante. Alla fine, quel nuovo corteo sottratto allo scontro decide di invertire la sua marcia e di ritornare a Nervi per farsi raggiungere là dai pullman per il ritorno.

Questa parte dei fatti di Genova è pochissimo documentata. Si tratta, a mio giudizio, di qualcosa di straordinario, maturo, consapevolmente solido, tradotto dai partecipanti in un evento volutamente festoso, anche se la violenza inferta ha lasciato il segno. S rifà la marcia a ritroso, ordinati, in grande sintonia con i Genovesi alle finestre, insensibili al fragore delle pale degli elicotteri, non perturbati da alcune provocazioni che la polizia non cessa di operare.

Battere di mani, ritrovarsi, SMS scambiati sui cellulari intasati, grande sete, ma anche compattezza, unità, allegra contaminazione tra generazioni, come da tempo non ricordavo. E al raccordo autostradale di Nervi un risalire tranquillo sui pullman, con la spunta dei nomi, l’aiuto della Polizia Stradale molto disponibile, la cronaca di Radio Popolare che avverte dell’insistere degli attacchi nella zona di Marassi, la soddisfazione dei familiari che riprendono notizia di quelli rimasti nella parte di testa del corteo, sottoposta ancora da quanto si apprende a cariche e incursioni.

Di fatto sono state le mazze e le provocazioni dei black block, che abbiamo visto solo a tratti come corpi totalmente estranei, ma, soprattutto, i fumogeni ed i manganelli della polizia che hanno assediato il corteo, senza riuscire né a scioglierlo né a farlo desistere dall’essere corteo intatto e visibile anche quando è stato costretto a ritornare sui suoi passi e a non raggiungere la meta prevista. È come se l’identità dei manifestanti fosse sul campo percepita come necessità superiore alle difficoltà, alla violenza subita, alla paura ingenerata; più importante delle stesse diverse anime che confluivano su quel lungomare. Qualcosa del genere si è ripetuto, naturalmente con altre modalità, a Perugia, a segnalare come l’identità di questo movimento in formazione sia vista come un traguardo al di sopra delle provenienze e appartenenze. Buon segno e cosa del tutto nuova.

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Pubblicato il 02 Novembre 2001
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