Il Ccr, la finestra dello squilibrio

Cervelli da studiare e cervelli che fuggono. Il divario fra scienziati italiani e stranieri è ben conosciuto dai ricercatori che passano dal Ccr. Le testimonianze di due generazioni

Non si perdonerebbe mai a Varese di lasciarsi sfuggire l’eccezionale occasione di dare vita all’Istituto sullo studio del cervello di cui è mente Rita Levi Montalcini. Questo rischio non esiste. Arriva il plauso da ogni dove. E sarà un’opportunità per quel know-how che ogni centro di ricerca deve possedere: i ricercatori. Proprio quegli scienziati, noti soprattutto per le loro fughe all’estero. Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna, qui le colonie di ricercatori italiani sono una realtà. Di loro ci si accorge quando un valente Annibale Puca scopre nel dipartimento di genetica dell’Università di Harvard il cromosoma della longevità, meno quando si tagliano 325miliardi di investimenti destinati alla ricerca, spariti dal bilancio dello stato, all’esame nei giorni scorsi delle commissioni del Senato. E l’obiettivo 2% di investimento fra spesa privata e pubblica, che porterebbe il paese ai livelli europei si allontana. Non bisogna andare all’estero per accorgersi della differenza. A Ispra, sede del Centro comunitario di ricerca della Commissione europea, il divario è segnato da quella lunga e alta recinzione che demarca la zona comunitaria, dall’Italia. I numerosi ricercatori italiani che hanno varcato quel confine, la differenza la conoscono bene. 

Trentaquattro anni, cremonese, Giuseppe Triacchini è laureato in Scienze ambientali. A Ispra abita da cinque anni e ci è arrivato per lavorare al Ccr. Dal 1997 al 2000 è stato all’ex Isis. Il suo ambito sono le applicazioni informatiche per l’ambiente e il territorio. Dopo questa esperienza, la fatica di continuare a fare ricerca in Italia. «Al Centro ci sono condizioni di lavoro più assimilabili al livello estero, fuori le possibilità sono limitate a settori ben definiti: università, istituti pubblici, enti collegati alle università, ebbene lavorare in questi ambiti significa una carriera lunga e difficile, pochi soldi, scarse strumentazioni e pagamenti dilazionati e se lavori con una borsa di dottorato, i tuoi assegni di ricerca, pari a 25milioni l’anno non sono cumulabili con altri tipi di lavoro». Una realtà con la quale bisogna confrontarsi, insieme alla tentazione di trasferirsi all’estero. «Di amici all’estero ne ho tanti,  fisici e medici in Francia o negli Stati Uniti, personalmente ho avuto un’offerta dal Tno, l’istituto di ricerca olandese, ma dopo lunga indecisione ho, nonostante tutto, dato preferenza al mio paese».

25milioni l’anno. A questo ammonta il dottorato italiano erogato dalle università, mentre l’assegno di ricerca, che rappresenta una possibilità per chi abbia, all’interno di un ente, istituto, o affini le competenze esclusive a sviluppare un progetto, è pari ad un compenso mensile di 1.630.000 lire. Ebbene qual è la realtà al Centro di ricerca isprese. Esistono due tipi di borse. La prima è la categoria 20 offerta ai laureati per due anni, più uno rinnovabile, e non comporta l’obbligo di scrivere una tesi, la seconda è la categoria 30, che possono ottenere coloro che intraprendono un post dottorato o chi ha un’esperienza di ricerca di almeno tre anni. Al lordo quattro milioni e ottocentomila lire per la prima e sette milioni e trecento mila lire al mese per la seconda. Le altre possibilità sono le borse europee dei programmi "Marie Curie fellowship" oppure del Tmr (train mobility research) pensate per favorire la mobilità dei ricercatori in Europa. 

È facile allora capire perché l’ingegnere nucleare Giuseppe Volta parla del Ccr come di "una finestra dello squilibrio". Una esperienza la sua, iniziata alla fine degli anni Cinquanta al Cnel. Di fughe di cervelli ne avrà viste e forse a questa sorte si è sottratto grazie a quella che lui chiama "l’esperienza europea": i trentacinque anni di attività al Centro. Da quattro anni è in pensione, ma i cervelli non smettono mai di funzionare e la sua attività (nell’ambito delle energie rinnovabili) continua ad essere frenetica, divisa fra la docenza all’Università di Pisa e le collaborazioni con enti e istituti. Ultimamente ha contribuito a stabilire le linee strategiche per il nuovo Centro di studi sulla sostenibilità a Brescia, collegato alla facoltà di scienze dell’Università Cattolica. «Al Ccr risulta chiaro come la gestione europea in termini di salario non sia per nulla paragonabile a quella italiana e l’utilizzo di prestazioni intellettuali siano una risorsa su cui investire, mentre in Italia domina il presupposto della sfruttabilità del giovane – dice l’ingegner Volta – le condizioni in cui si fa ricerca sono insopportabili e giovani brillanti sono considerati alla stregua di servi della gleba. Il risultato è uno sciupio di risorse assente in altri paesi».

La portata di questo fenomeno si può desumere anche da quanto si investe nella ricerca in Italia. Da noi si spende in totale 1,04% del Pil, in Eurolandia l’1,92% e in Usa il 2,62%. I bilanci statali dedicano l’1,36% in Italia, 1,99% in Europa e 4,20% in Usa. Di questi alla ricerca per la difesa vanno in Italia il 2,6%, il 16% in Eurolandia e il 50% in Usa, (questo per smentire l’obiezione che all’estero si investe si, ma solo per la difesa). Le cifre fornite da Volta, sono tratte dal rapporto "Towards a European Area 2001" della Commissione Europea. Il dato poco incoraggiante è un investimento per la ricerca che si aggira intorno all’1,04% del Pil. Un dato che purtroppo continua a scendere.

Ma quali sono le interpretazioni che si possono dare di quello che Volta definisce anche come "problema culturale italiano"? Il panorama definito dal ricercatore si orienta su due grandi questioni non affrontate politicamente. La privatizzazione di colossi come Iri, Eni, Enel che avevano una funzione sussidiaria rispetto alla ricerca, sono state condotte in modo da distruggere quella ricerca tecnologica, senza trovare alcuna compensazione e poi la disoccupazione giovanile. Un problema che non è stato affrontato in modo sapiente a partire dal sistema formativo, ben lontano da quello duale (tecnico-accademico) utilizzato in altri paesi europei e la flessibilità che non ha avuto nessun impatto positivo, solo lo spreco di risorse intellettuali di cui si parlava prima. «Così l’Italia non è riuscita ad agganciarsi all’Europa – conclude Volta – e il problema è che la situazione nel nostro paese risulta paradossalmente peggiorata rispetto a quando ho iniziato a lavorare».

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Pubblicato il 02 Novembre 2001
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