Giorgio Lotti: quando la fotografia entra nella storia

Vive a Varese il fotografo che ha scattato la foto più diffusa al mondo. Oltre cento milioni di copie per il ritratto del Primo Ministro Cinese

Se fosse un cantante sarebbe disco di Platino, se fosse scrittore un Bestseller. Giorgio Lotti, invece, è un fotografo, uno tra i più bravi fotografi nel panorama internazionale, che tra i suoi numerosi reportage da  ogni parte del globo ha firmato la foto più riprodotta al mondo: oltre cento milioni di copie per il ritratto ufficiale di Zhou en Lai, Primo Ministro cinese.

Nato a Milano, vive da molti anni a Varese, scegliendo di stare nell’ombra e di godersi la pace del suo studio. Collaboratore free-lance per alcuni quotidiani e settimanali quali Milano sera, La Notte, Il Mondo, Settimo giorno e Paris Match nel 1964 entra nello staff di Epoca dove lavora per oltre trent’anni, realizzando alcuni tra i servizi fotografici più belli della storia italiana.

Gentile, schivo, ricco di cose da raccontare, parla con passione del mestiere di fotografo, dei viaggi intorno al mondo e di una professione che forse sta perdendo la sua vera identità.

 

Giorgio Lotti, lei è nato a Milano ed ha girato il mondo, come è arrivato a Varese?

Da bambino ho frequentato il collegio a Comerio. Per me era sempre una gioia immensa fermarmi ad ammirare gli stupendi tramonti sul Lago di Varese. Fin da giovane sono sempre stato affascinato dall’acqua e quando ho dovuto decidere dove vivere ho scelto Varese.

 

Come è nata la passione per la fotografia?

In realtà dovevo diventare disegnatore di gioielli. Adoravo il cinema e spesso rivedevo lo stesso film due o tre volte, rimanendo in sala dal pomeriggio fino a tarda sera. Mia madre fraintese quella passione e credendo che il cinema avesse a che fare con la fotografia mi spinse in questa direzione. Seguii il suo consiglio ed è stata la mia fortuna.

Ho studiato presso delle scuole private e nel 1974 fui chiamato dal Prof. Cleff Edon della Columbia University e trascorsi alcuni mesi Oltreoceano. In questo paese ebbi l’occasione di completare i miei studi e perfezionare la tecnica. Devo molto a questo professore.

 

Nella sua formazione chi ha avuto più importanza?

Senz’altro Bruno Munari, conosciuto in occasione di un lavoro. Mi ha insegnato a leggere la semplicità, una lezione che è stata fondamentale per tutti i miei lavori. Grazie a lui ho conosciuto anche Luigi Veronesi che mi ha spiegato la teoria dei colori. Sono convinto che la tecnica sia importante ma è soprattutto l’arricchimento personale che ti permette di compiere un buon lavoro.

Il problema non è diventare un buon fotografo ma rimanere un  buon fotografo. (nella foto “Autoritratto”).

 

Cosa deve avere in più una foto giornalistica?

Deve raccontare dove, come e quando. Non deve essere una bella foto ma deve parlare.

 

Quanto conta la casualità nel suo lavoro?

Un famoso detto dice “contro il cul ragion non vale”. Certo è importante essere al momento giusto nel posto giunto, ma io sono anche convinto che la fortuna non arriva a caso, ma premia l’esperienza. Il fotografo deve essere come un pilota di caccia, che deve sapere un minuto prima che cosa succederà. La cosa migliore è far dimenticare la propria presenza per poter riprendere i fatti nel modo più naturale possibile.

 

Cosa vuol dire per lei avere in mano una macchina fotografica?

Scoprire il mondo attraverso questo mezzo, e conoscere cose che non so. Raccontare al lettore quello che lui non vede.

 

In quale occasione ha fotografato il primo ministro cinese Zhou en Lai?

Ero a Pechino e grazie all’ambasciatore italiano ebbi partecipai ad una festa in cui era presente Zhou en Lai. L’ambasciatore mi raccomandò di non portare la macchina fotografica perché vi era l’assoluto divieto. Io però non ebbi il coraggio di lasciarla a casa e da buon fotografo la infilai in tasca. All’ingresso una lunga coda  di persone aspettava di salutare il primo ministro. Io ero circa a metà e pensai che l’unica occasione per poterlo fotografare era nel momento del saluto. Uscì dalla coda e mi misi per ultimo; non avrei potuto chiedergli uno scatto se avesse dovuto ricevere altre persone. Il mio pensiero era come riuscire a comunicare, la fortuna volle che Zhou en Lai avesse studiato in Francia e conoscesse alla perfezione il francese. Quando arrivai al suo cospetto mentre gli chiedevo di poter fare un ritratto lo invitai ad accomodarsi su una poltrona. Sapevo di avere la possibilità di un solo scatto come da cultura cinese. Il primo ministro accettò di farsi fotografare ma  non essendo molto convinto della prima fotografia gli chiesi la possibilità di scattarne un’altra. Il quel momento il suo assistente gli comunicò che in sala lo stavano aspettando e lui tolse lo sguardo dall’obbiettivo per guardare lontano. Così nacque il ritratto. Una volta tornato in Italia l’ambasciatore cinese mi chiese una copia della foto su richiesta esplicita di Zhou en Lai. Inviai la foto ma solo dopo tre anni seppi che era diventato il ritratto ufficiale.

 

In che senso?

Un mio caro amico era in Cina quando il Primo Ministro morì e partecipò ai funerali in piazza Tienanmen. Tornato in Italia mi fece vedere le foto scattate alla folla. Tutti tenevano in mano la foto di Zhou en Lai scattata da me anni prima. Dopo averla vista, infatti, Zhou en Lai la scelse come ritratto ufficiale permettendo una diffusione grandissima. In Cina si sa, vivono milioni di persone e la riproduzione del ritratto ha superato oltre cento milioni di copie, diventando più diffusa del ritratto di Che Gevara.

 

Giorgio Lotti non è solo stato un grande reporter ma nei suoi viaggi intorno al mondo ha fotografato moltissimi personaggi, da politici come Arafat a maestri dell’arte come Andy Warhol.

Del ritratto d’artista ne ha fatto una vera passione realizzando una collezione unica nel suo genere. Ritratti non banali ma dove la conoscenza approfondita dell’opera dell’artista trapela da ogni fotografia.

 

Ha mai avuto crisi nel suo lavoro?

Come no. Soprattutto perché viaggiare intorno al mondo e fare questo lavoro ti tiene lontano da casa e dalla famiglia per lunghi periodi. Quando nascono i figlio tu non ci puoi essere e questo pesa molto.

Quante foto ha scattato nella sua vita?

Più di un milione. Il mio sogno è che a Varese o in Italia possa nascere una Fondazione della fotografia e che raccolga gli archivi dei fotografi più bravi. Il rischio è che altri paesi o collezionisti privati acquistino questo patrimonio inestimabile, che non è solo un insieme di foto ma la storia di un paese, di una società, è la storia della storia.

 

Qual è la prima foto che ha realizzato?

Una foto bruttissima al mare di Levanto.

 

L’ultima?

Un reportage alla fondazione Don Gnocchi di Roma su ragazzi disabili. Un’esperienza durissima ma altrettanto forte e importante.

 

Lavora con la macchina digitale?

Credo che il digitale sia come una pellicola. Il computer può aiutare a togliere delle imperfezioni o ottenere dei contrasti particolari, ma sono convinto per una buona foto non sia importante il mezzo ma la testa del fotografo. Indubbiamente è un mezzo utile per un uso domestico.

 

Progetti futuri?

Un libro sull’Italia e gli italiani. Una selezione dal mio archivio di venti anni di fotografia: ci saranno ritratti di personaggi, paesaggi, cibo e costume.

 

Sembra dissacrante ma posso farle una foto?

Certamente!

di
Pubblicato il 01 Dicembre 2004
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