“La Gamba del Felice”, la memoria ritrovata

Intervista a Sergio Bianchi direttore della casa editrice DeriveApprodi

Sergio Bianchi, tradatese di nascita, dopo un percorso nella "nuova sinistra" è ora direttore della casa editrice DeriveApprodi e alla sua prima prova narrativa La Gamba del Felice, pubblicata dalla prestigiosa Sellerio di Palermo e ambientata nel Varesotto.

Bianchi, perché questo ritorno con la memoria agli anni Cinquanta e Sessanta, alla vita di paese, ai giochi e ai passatempi da ragazzi e alle prime esperienze di "rottura" giovanili?
«
Perché ero interessato a indagare la grande trasformazione economica, culturale e sociale di quel periodo. In quei territori ho partecipato, negli anni Settanta, alle lotte cosiddette autonome, cioè quelle esterne alla direzione dei partiti e dei sindacati. Un movimento molto ampio, costituito prevalentemente da giovani e giovanissimi operai, scoppiato spontaneamente, che contestava il regime di fabbrica, la formazione scolastica ma anche le culture e i costumi radicati. Un movimento finito molto male, nella repressione durissima, nella disperazione della droga e delle armi. Mi è capitato di scrivere un saggio a riguardo e l’ho titolato Figli di nessuno. Poi però mi sono domandato se era proprio così, se dietro quel movimento, negli anni precedenti, non c’erano stati fenomeni che lo avevano, per così dire, incubato. Allora ho scartato gli strumenti dell’analisi economica, sociologica politica ecc. e ho preferito andare a cercare i soggetti della generazione precedente la nostra o, per meglio dire, i nostri fratelli maggiori, per chiedergli semplicemente che cosa era la loro vita materiale in quei due decenni successivi alla guerra. Ho usato gli strumenti della conricerca, un metodo di inchiesta basata sulla conversazione compartecipe tra intervistato e intervistatore. Un metodo che ha la sua tradizione nello studio delle fonti orali e che ha avuto come maestri Danilo Dolci, Danilo Montaldi e altri grandi ricercatori sociali. Ho raccolto pazientemente i racconti badando soprattutto al linguaggio con cui venivano espressi, e quindi è venuto naturale scegliere poi un registro di tipo narrativo. Quel che ne è emerso è che i figli del dopoguerra nel nostro territorio hanno rappresentato con i loro piccoli ma continui gesti di insubordinazione l’incubazione della rivolta generalizzata del ’68, con una inclinazione però niente affatto intellettuale ma piuttosto selvatica, dato che erano tutti figli del proletariato e non della borghesia. Non vi è ideologia politica in questi personaggi che si raccontano, perché semplicemente non sapevano neppure cosa fosse la politica. Vi sono solo i loro comportamenti materiali riguardo la vita consumata in un piccolo paese nel difficile dopoguerra e poi nel turbinoso decennio Sessanta: il lavoro, la scuola, la famiglia, la socialità nel tempo libero, la cultura, il rapporto tra i sessi ecc. Tutti temi investiti da una gigantesca trasformazione in corso. Quel che ho tentato di narrare attraverso le loro voci è stato un processo prepolitico, assolutamente materialistico e non ideologico».

Il titolo del tuo libro è non velatamente un ricordo e un omaggio a tuo padre, che il Silvano ha così ben tratteggiato nella lettera che chiude il tuo testo. Cosa ha rappresentato per te la gamba artificiale di tuo padre?
«La gamba artificiale è il simbolo del rimedio posticcio a una grande mutilazione che è stata fisica ma anche psicologica: la partecipazione e la sconfitta a una guerra che ha coinvolto tutta la generazione che ci ha preceduto. Una generazione cresciuta nel fascismo, mantenuta nell’ignoranza, mandata in guerra a macellarsi, che ha dovuto poi subire anche i drammi di una guerra civile. Una generazione però, che dopo una simile tragedia ha ricostruito in tempi velocissimi un paese devastato, arricchendolo economicamente, democratizzandolo politicamente, acculturandolo. Se omaggio vi è, riguarda non solo la questione personale di mio padre ma tutta la sua generazione».

Nanni Balestrini nell’introduzione evidenzia che questo testo "è il racconto vissuto di una mutazione" economica e antropologica, che ha investito il nostro paese con gli inizi degli anni Sessanta. Provi nostalgia rispetto a quei tempi "andati", comparandoli con la quotidianità postmoderna?
«Molti altri mi hanno fatto la stessa domanda. La nostalgia attiene alla costellazione dei sentimenti intimi di ciascuno di noi, e ciascuno di noi è libero di farne l’uso che vuole. Ma quando la nostalgia viene trasposta sul piano sociale rischia di funzionare da elemento regressivo, addirittura reazionario. Certo, quante cose belle c’erano allora e che la modernizzazione accelerata del boom economico ha spazzato via, basti pensare al rapporto, allora ancora equilibrato, con la natura. Epperò, proprio questo è il problema. Ogni processo di modernizzazione porta con sé insieme il male e il bene, in proporzioni che solo la storia può poi farsi carico di assegnare. Ma dire che allora era tutto bellissimo significa non riconoscere che quella trasformazione insieme a immani distruzioni ha portato anche una emancipazione allora impensabile, e non sto parlando solo di ricchezza materiale ma anche di consapevolezza, di coscienza, di sapere».

Quanto ha inciso nel cambiamento di mentalità e nella crescita esponenziale dell’individualismo, quella che tu chiami l’estensione della "fabbrica diffusa"?
«La "fabbrica diffusa" è il risultato della rottura, attraverso le lotte di massa dei lavoratori, di un rapporto di sfruttamento che modellava un precedente assetto produttivo. Quando i padroni (perché io li chiamo ancora così) hanno capito che non reggevano più quel rapporto e quel modello, ne hanno inventato un altro costruito sulla massima socializzazione del lavoro. La cosidetta ristrutturazione ha determinato il nuovo assetto produttivo della "fabbrica diffusa", che ha significato allargamento dello sfruttamento a figure sociali che prima non stavano direttamente dentro quel rapporto. Intendo rottura delle conquiste normative sindacali, estensione a dismisura del lavoro a domicilio, lavoro nero ecc. che ha catturato dentro quel rapporto minori, anziani, pensionati, casalinghe, studenti, handicappati, tutti. La "fabbrica diffusa" ha significato nel nostro territorio esattamente questo. Ora, ciò ha comportato una crescita esponenziale dell’individualismo? Certo. Questo è sempre accaduto ogni volta che si è data la rottura di una determinata composizione di classe socialmente strutturata e politicamente organizzata. Oggi, a distanza di trent’anni dall’inizio di quel processo ci siamo ancora interamente dentro. Ma da qui a dire che siamo alla "fine della storia" ce ne passa. Lasciamo queste convinzioni ai cantori stonati appunto del postmoderno. È una risposta politica, me ne rendo conto, ma la domanda non era "letteraria"».

Infine, la speculazione che ha devastato il territorio urbanizzato oltre ogni livello di immaginazione rispetto agli anni Cinquanta, che futuro riserva a queste periferie senz’anima?
«
La speculazione, per realizzarsi, si deve necessariamente coniugare alla corruzione, al clientelismo. Questo ha agito il "sistema dei partiti", nel suo complesso, dal dopoguerra a tutti gli anni Ottanta, sul nostro territorio come in tutto il Paese. L’esito lo abbiamo sotto gli occhi. Le vecchie rappresentanze politiche si sono man mano mafiosizzate e spinte oltre la soglia della sopportabilità sociale. Da noi, per motivi complessi che non possiamo qui indagare, c’è stato un moto generalizzato di ribellione a questo processo. Purtroppo però, a mio avviso, questo moto è presto degenerato in logiche e culture impregnate di nuovo fascismo e di nuovo razzismo. Ma, ancora, da qui a dire che non c’è rimedio a questa situazione che coniuga incredibilmente il massimo di ricchezza e di consumi a sentimenti profondamente tristi, ce ne passa. Perché non sperare, e non indagare con paziente tenacia, ciò che è oggi la prepolitica della nuove generazioni? Forse ne ricaveremmo delle strordinarie sorprese».

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Sergio Bianchi,
La Gamba del Felice
Ed. Sellerio – pag. 148
Euro 12,00

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Pubblicato il 21 Febbraio 2006
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