Con l’export nel sangue

Oltre la metà del fatturato di molte azienda varesine arriva dal rapporto con l'estero. Se ne è parlato nel forum organizzato dall'Unione Industriali alle Ville Ponti

A sentire i loro racconti, hanno un che di eroico le aziende varesine quando affrontano i mercati esteri.  Non necessariamente sono grandi aziende: spesso sono di piccole e medie dimensioni e affrontano il mondo leggendo un giornale e dicendo ”caspita qui c’è da fare”: come è stato per Giancarlo Besana, partito per la Cina a installare ascensori nell’80, appena aperte le frontiere del grande paese asiatico. Sicuro, a ragione, «che li ci fossero molte case da costruire e molti ascensori da installare».

per questo l’occasione data dal forum sull’internazionalizzazione che Univa ha organizzato è stata preziosa ed eccezionale, poichè metteva a confronto aziende con grande esperienza all’estero con le principali istituzione a loro dedicate: dalla Regione Lombardia alla Camera di Commercio, dall’Istituto per il Commercio Estero alle banche.

Da come ne parlano le aziende stesse però, sembra che il modo di muoversi sia scomposto: individualista e non organizzato. E molto spesso la situazione resta così anche in un secondo tempo:  scoprono solo dopo essere partiti che esistono enti che promuovono l’estero, bandi che finanziano i loro viaggi, teoricamente anche assistenza. A volte la sfruttano, se la scoprono e si trovano bene. A volte nemmeno quello: si arrangiano con l’esperienza e le fregature, o con i consigli degli amici.

Vista da questa parte, è un’impresa titanica  quella a cui si sottopongono gli imprenditori varesini, normalmente piccoli e perciò già in svantaggio competitivo, normalmente poco aggregati perciò in ulteriore difficoltà. E c’è da stupirsi come la ricerca realizzata da Telesurvey per Univa, su un campione di 200 aziende associate di tutte le dimensioni,  mostri come all’estero ci siano andati già in 199 e di come per loro l’estero rappresenti in media più della metà del fatturato.

E c’è poco da lamentarsi né da stupirsi se la stragrande maggioranza di chi lavora con l’estero lo faccia nella vicina Europa o al massimo con gli Stati Uniti: in una situazione in cui all’imprenditore tocca la guida della produzione e anche quel che resta della commercializzazione, e non percepisce punti di riferimento riconoscibili, l’unica cosa che resta per andare a “cercare mercato”oltre l’Italia è qualche paese simile a noi, o non troppo lontano, o raggiungibile agevolmente tramite fiere continentali.

Quello che difetta, a quanto sembra emergere dal dibattito, è un supporto concreto alle aziende da parte delle istituzioni: fatto di attenzione sul campo e di politiche dedicate alle piccole aziende che vogliono andare all’estero, di incentivi finanziari per  fare i primi passi e uffici informazioni nei mercati principali.

«Chiedo alle istituzioni e alle banche di avere la stessa voglia di cambiamento che abbiamo noi – proclama Paola Mazzucchelli,  legale rappresentante della Vema, industria tessile che produce tessuti ricamati di alta qualità, che ha scoperto alla fine degli anni 90 il mercato asiatico e ora esporta il 70% del suo prodotto – Abbiamo bisogno infatti che entrino nella nostra mentalità per esserci vicino: il mercato sta cambiando, ed è necessario anche per loro adeguarsi»

Una richiesta ragionevole, da parte di chi nel mercato estero ci sta da un bel pezzo, anche a favore di chi nel mercato non c’è ancora o fatica a entrarci. E sulla quale c’è ancora parecchio da lavorare se dobbiamo dare retta a Francesco Sereni, capo dipartimento Promozione Industriale di ICEl’Ente pubblico che ha il compito di promuovere i rapporti economici con l’estero – che confessa candidamente come «La capacità di innovazione degli italiani sia straordinaria ma il problema è che la piccola industria è carente sul versante della commercializzazione e perde sfide commerciali che potrebbe vincere, perché gli manca un’organizzazione commerciale che l’aiuti a entrare nel mercato estero»: cioè, quello che dovrebbe fare l’Ice. O se ascoltiamo le parole di Fabio Bolognini, responsabile marketing imprese di BancaIntesa, che ha spiegato senza peli sulla lingua come nel passato non ci fosse alcuna intenzione da parte degli istituti di credito italiani di espandersi all’estero, e come l’espansione tardiva di questi ultimi anni sia stata portata avanti «non certo guardando alle imprese italiane, quanto piuttosto al mercato locale».
 
Viste le premesse, c’è quindi ancora molto da lavorare per riuscire a convincere le aziende di avere davanti dei partner affidabili, indipendentemente dall’etichetta istituzionale che possiedono.
Le aziende del resto hanno già scelto chi preferiscono: nell’indagine infatti hanno confessato di avere maggior dimestichezza e gradimento con la Regione Lombardia  – giudicata “ottima” da un significativo 2% di intervistati, una delle poche istituzioni che ha meritato questa valutazione – e con la Camera di Commercio, che fa il pieno di valutazioni positive, con solo il 18% di “sgradimento” da parte degli intervistati, contro le più alte percentuali delle altre istituzioni (eccezion fatta per la Regione, che ha il 22% di giudizi negativi), vicine al terzo.

Per alcune omissioni nella loro attività gli imprenditori varesini non hanno alcuna scusa: soprattutto nella registrazione dei marchi e dei brevetti (solo il 30% di loro circa registra i marchi o i brevetti, e sono un po’ meno quelli che li registrano per l’estero) e nell’aggregazione delle imprese, entrambi retaggi di una diffidenza atavica che ora fa solo male a sé stessi. In questo caso è solo la testa dell’imprenditore che deve cambiare, prima che sia troppo tardi. Ma per il resto, la soluzione per affrontare il mercato che cambia è una sola: lavorare con chi rende più facile affrontare il nuovo mercato mondiale.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 02 Marzo 2006
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