Retorica e argomentazioni elettorali

La retorica è l’arte del discorso convincente. Scienza antica, ne scrisse Aristotele nel quarto secolo avanti Cristo. Oggi si è evoluta in scienza della comunicazione, del marketing, della individuazione del destinatario e della sua mentalità adeguando il messaggio ai suoi modi di percepirlo. Così si riesce a convincere il consumatore ad acquistare Dash perché lava più bianco. Nella prassi si coniano, utilizzano, recepiscono slogan, frasi fatte, espressioni sintetiche: Roma ladrona, il presidente operaio, gli affamatori del popolo, le toghe rosse.

Talvolta il discorso si fa meno grezzo e più articolato, ma risponde pur sempre a paradigmi di messaggi pubblicitari che rifuggono dall’informazione e dal ragionamento, ma si affidano solo al convincimento ripetitivo e seduttivo, un grimaldello per scardinare la nostra autonomia di giudizio. Questo non mi piace nelle campagne pubblicitarie, e nei loro epigoni rappresentati dagli spettacoli televisivi della propaganda elettorale, dove sembra avere più opportunità di convincimento (lo leggo sulle pagine dei giornali dove sono riportati i consigli degli esperti di “look” ai contendenti) chi abbia la cravatta giusta, la pettinatura più appropriata, il fondo tinta più coerente con le luci dello studio di ripresa televisiva.

Ma il mio è un moto di stizzosa insofferenza che ignora una verità psicologica conclamata: l’importanza dell’apparenza. Infatti ricordo uno studio statistico (quindi una rilevazione di fatti e non una enunciazione di opinioni) secondo cui una persona bella ha in media una posizione professionale con retribuzione superiore di quella di una persona brutta. A consolazione cito il detto popolare “belle e brutte si sposan tutte”, e conosco infatti gentili signore non proprio belle ma felicemente sposate con compagni innamorati. Ma questo è un altro discorso.

A volte la retorica si fa più articolata, e vorrei in proposito citare uno schema logico caro al presidente del consiglio Berlusconi quando si parla di conflitto di interessi, schema che ha riproposto nel recente dibattito televisivo con Prodi: il vero conflitto di interessi ci sarebbe, secondo Berlusconi, riguardo le cooperative e i comuni amministrati dai rossi, i cui intrallazzi, illeciti e reati non verrebbero poi perseguiti bensì insabbiati dalla magistratura di sinistra. E di conseguenza egli sarebbe vittima dei magistrati, dei giornalisti RAI, dei giornali, degli intellettuali, che sono in maggioranza di sinistra.

Questo mi fa pensare. Se una corporazione è interessata ai suoi vantaggi e persegue il proprio successo economico e di carriera, tende normalmente ad allinearsi con chi ha il potere. Dovrebbe, secondo il detto di Ennio Flaiano, seguire la buona regola di correre comunque in soccorso del vincitore. E invece, in una storia italiana dove non hanno prevalso i governi di sinistra, questi sprovveduti sono di sinistra! Mi chiedo perché, se poi è vero.

A questo punto bisogna forse chiedersi cosa si intenda oggi per sinistra e per destra. Una spiegazione che non spiega ma chiude un circolo, è cioè una tautologia, sarebbe che è di sinistra chi simpatizza per un partito o per un movimento di sinistra. Ma siccome qui la definizione non vuole essere accademica ma pragmatica, calata cioè nel corrente sentire della gente, direi semplicemente che è di sinistra chi è sensibile agli interessi del popolo tutto, ed in particolare dei ceti disagiati, piuttosto che agli interessi del privilegio e del potere. E’ uno stato d’animo, una pulsione idealistica e generosa, che poi non sempre condiziona particolari comportamenti.

E allora questi sprovveduti di magistrati e giornalisti, che in maggioranza sarebbero di sinistra, forse lo sono non per perversa inclinazione politica, ma perché condizionati dal loro mestiere, che li mette a contatto con una realtà umana spesso dolorosa, faticosa, sacrificata, avvilita, sottomessa e sfruttata. Con gente vittima di una vita difficile, vittima di privilegi, di arroganze del potere, di indifferenza sociale, di strutture e di politiche ispirate dall’egoismo piuttosto che da senso di libertà, di uguaglianza, di fratellanza. E con questo sono tornato al motto della rivoluzione francese. Anche questa è retorica politica?

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Pubblicato il 19 Marzo 2006
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