Jannacci, una “Via del campo” da brivido
Grande prova del cantautore milanese al Teatro Condominio. Un omaggio commovente all'amico Fabrizio De André
Ore 22 e 55. Seconda parte del concerto di Enzo Jannacci al Teatro Condominio di Gallarate. Il cantautore esce di scena, ma prima di sparire dietro le quinte accarezza i capelli del figlio Paolo che al pianoforte attacca un preludio a “Bartali”. In un teatro, completo in ogni ordine di posti, è andata in scena la tenerezza, quella vera (i due Facchinetti, dj Francesco e Roby dei Pooh, al festival di Sanremo sono nulla al confronto).
Da un settantaduenne che biascica parole, con arte e ironia surreale, da almeno 50 anni, cioè da quando è sulla scena, è un gesto che non ti aspetti. E non è solo la tenerezza di un padre verso il figlio a colpire lo spettatore, ma anche quella nei confronti degli amici Fabrizio De André, Giorgio Gaber e Luigi Tenco. Quando attacca “Via del Campo”, arrangiata da Paolo Jannacci in modo ancor più sofferto e cupo rispetto alla versione originale, la voce diventa nitida e le parole vengono scandite con precisione. «Se leggo o canto le cose degli altri ho sempre il testo davanti a me, è un atto di rispetto nei loro confronti. Non sbagliare è un modo per ringraziarli».
Ciò che sorprende di Enzo Jannacci è che i suoi ragionamenti – dove tutto si confonde in un susseguirsi di vocaboli incomprensibili, metafore naÏf e immagini surreali – alla fine arrivano a una conclusione chiara: signori, che vi piaccia o no, questa è l’Italia. Racconta storie di cavalli e di stallieri, di polvere e di strisce, di politici e di ville in brughiera, di senatori a vita e di prescrizioni, di un cabaret chiamato Derby e di mafia. Cosa c’entra tutto questo con la musica? C’entra eccome, perché Jannacci è un testimone del suo tempo, passato e presente. Uno che non ha dimenticato la fatica e le origini di una famiglia di emigranti pugliesi: «Per un filone di pane si viene anche a Varese».
“The best tour 2007” è un concerto che merita di essere visto, oltre che ascoltato. Il “ti-ti-ti-ti” del pianoforte annuncia “Giovanni il telegrafista” con il sipario ancora chiuso; “Ma mì” viene sussurrata senza microfono, in una sorta di confessione con il pubblico; “E vai” con la band che fugge dal palco lasciando lui da solo e il sassofonista impazzito (Michele Monestiroli), che attacca un assolo mozzafiato; “Mamma che Luna che c’era stasera” una poesia musicata dallo stesso Jannacci con tanto di autore in platea. E ancora “El purtava i scarp de tennis”, “Quello che canta onliù”, “Faceva il palo” , “Sei minuti all’alba”, “Ho visto un re” in versione country. «Perché se vieni a Varese il country devi farlo». Un ultimo tentativo di metterla sul ridere, ma la gente è commossa. Quel settantaduenne che biascica le parole, solo delle sue canzoni, e rischia di inciampare nei fili del microfono a ogni passo che muove sul palco, ha colpito al cuore ancora una volta. E il fatto che sia un cardiologo non c’entra proprio niente.
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