«Cefalonia: io c’ero»

Annibale Veronese, reisdente di Busto, fu tra i pochi scampati allo sterminio della Divisione Acqui da parte dei nazisti

Gli occhi lucidi, un singhiozzo soffocato. «Si sono presentati loro stessi ai tedeschi, con le loro divise, i gradi e tutto. Non si sono nascosti. Li portavano a San Teodoro, lì il cappellano li benediva, poi andavano a morire, fucilati, gridando "Viva l’Italia"». A raccontare il massacro di Cefalonia (isola greca dove oggi, 25 aprile, è si è recato in visita il presidente della Repubblica Napolitano, ndr), in questo caso quello degli ufficiali della sventurata e per sempre gloriosa divisione Acqui, è un superstite, uno dei pochissimi rimasti. Si chiama Annibale Veronese (foto sotto), 85 anni, vive da tempo a Busto Arsizio, in via Del Ponte, dove si è trasferito per essere vicino ai familiari dopo una vita di lavoro a Milano. Ai giornalisti che lo intervistano mostra con orgoglio l’encomio solenne per i superstiti della Acqui.

Il signor Annibale, nativo di Meduno nel Friuli occidentale, fu arruolato giovanissimo, a vent’anni. Come soldato semplice aggregato alla compagnia comando del 317° reggimento di fanteria, si unì alla divisione Acqui, e fu prima a Zante (la Zacinto di foscoliana memoria, per intenderci) per alcuni mesi, poi, dalla fine del 1942, a Cefalonia. Isole di splendore mediterraneo, poco o niente toccate dalla guerra. Gli inglesi non si facevano vedere, i civili greci, per quanto feriti nell’orgoglio, non si mostravano ostili. Annibale Veronese era il classico "ragazzo tuttofare" dei comandi: furiere addetto ai rifornimenti, ma anche portaordini motociclista (con la Guzzi 500, ricorda, da un posto d’osservazione costiero all’altro), accompagnatore del cappellano militare, e un’infinità di altre piccole incombenze. Una vita attiva ma tranquilla, ben lontana dal tuonare del cannone, insomma. Poi venne l’8 settembre, e con esso il dramma della Acqui.

«Si sparse voce che i tedeschi esigevano la consegna delle armi. Non sapevamo davvero che fare, dall’Italia non arrivavano ordini nè aiuti, niente. Decidemmo infine di resistere: e da 12.800 che eravamo in organico, nel giro di poche settimane restammo sì e no duemila». Molti caddero in combattimento, ma il peggio avvenne dopo. «Gli Stukas ci avevano macellati»: i tedeschi avevano il dominio dell’aria, inglesi e americani, che avevano le portaerei a quarantott’ore di viaggio, non si fecero vedere. «I tedeschi avevano avvertito che non avrebbero fatto prigionieri» racconta Annibale: e furono di parola, trucidando quasi tutti quelli su cui misero le mani. Circa 5000 uomini, fra cui pressochè l’intero corpo ufficiali (esclusi, ironicamente, alcuni dei promotori della resistenza ad oltranza, che sopravvissero solo per essere perseguitati in seguito da alcuni parenti dei caduti) furono sterminati a colpi di mitragliatrice e bombe a mano in locali, bunker e cave, bruciati vivi, ammazzati come cani. Altre migliaia finirono in pasto ai pesci quando le navi dei nazisti che dovevano condurli alla prigionia finirono sulle mine disseminate dagli Alleati nel mare Ionio.

«Mi salvai dopo il massacro degli ufficiali andando a piedi, per le montagne, da Sami ad Argostoli» racconta il reduce. «Non dimenticherò mai quella fuga. Più volte, ad un bivio, scegliemmo: chi di qua, chi di là, ci dividemmo. Chi non ha seguito la mia strada non l’ha rivisto più nessuno. In condizioni pietose arrivai ad Argostoli, in una caserma che ospitava altri prigionieri ancora vivi. Qui c’era un commilitone che parlava un po’ di tedesco per aver lavorato in Germania, e questo ci salvò – in seguito è stato il mio testimone di nozze». Dopo qualche mese, gli emaciati prigionieri furono caricati su due navi per essere portati a Patrasso. «C’erano due navi, io ero sulla seconda. La prima, come uscì dal porto centrò una mina, s’impennò e affondò. Chi ebbe la forza di gettarsi in mare fu trascinato a fondo dal risucchio della nave che affondava, mentre guardavamo impotenti». Dalla Grecia i prigionieri-schiavi furono trasportati in Bielorussia, a Minsk, a riparare ferrovie. Fame, freddo. «Niente da mangiare, quaranta gradi sotto zero. Quando ci sbattevamo le braccia intorno al corpo, i tedeschi ci dicevano "lavora che ti scaldi". E meno male che nei miei studi c’era un po’ di lingue, e qualche parola di tedesco la capivo. Facevo io stesso da inteprete, pensate un po’». Fu solo nei giorni della Liberazione, subito dopo il 25 aprile, che Veronese riuscì finalmente a sottrarsi alla prigionia e a raggiungere il suo Friuli, dove ancora si aggiravano reparti tedeschi in ritirata. «Mi pensavano tutti morto. Avevo il terrore di incontrare mia madre e farle prendere un colpo» spiega con le lacrime agli occhi Annibale, «così ho mandato avanti qualcun altro ad annunciare il mio ritorno». E da quel giorno è stata vita nuova. «Mi hanno chiesto quelli che mi conoscono: ma come hai fatto a salvarti? Io dico solo due cose: destino e preghiera».

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Pubblicato il 25 Aprile 2007
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