Varesotto a mano armata: le verità nascoste dei sequestri

Gianni Spartà ricostruisce la stagione dei grandi rapimenti degli anni Settanta, mentre la magistratura non ha mai smesso di cercare gli scomparsi

Cesare Casella, Carlo Celadon, Andrea Soffiantini e poi Cristina Mazzotti. Nomi famosi di rapimenti che hanno commosso l’Italia intera. Chi si ricorda oggi di Emanuele Riboli?
Rapito a 14 anni mentre torna a casa da scuola, in bicicletta, a Buguggiate, il 14 ottobre 1974. Tracce di un Varesotto a mano armata, anni settanta, lunga stagione di sequestri e pistole.

I figli di un altro rapito, Tullio De Micheli, sequestrato il 13 febbraio 1975 a 61 anni, hanno chiesto qualche mese fa alla magistratura di cercare ancora il corpo del padre. La procura della Repubblica ha spiegato che il caso non è ancora chiuso e che nuove ricerche sono state fatte.

Intanto è mancato nelle scorse settimane proprio il papà di
Emanuele, Luigi Riboli. E a molti varesini è tornata alla mente una
stagione ormai dimenticata, narrata per molti anni dalla penna di
Gianni Spartà (nella foto), caporedattore del quotidiano "La Prealpina", memoria storica delle cronache varesine, che ebbe modo di raccontare "Il medioevo dei sequestri" in un prezioso libro, "Questa è la storia…", Nicolini Editore,  che forse meriterebbe una ristampa.
Riboli, Mazzotta, De Micheli, la stagione dei sequestri.

Come si arrivò all’esplosione del fenomeno nel Varesotto?
«Gli anni Settanta sono uno spartiacque storico ne romanzo criminale: finisce il contrabbando romantico e gli uomini che avevano valicato le montagne di confine, di notte,  con le bricolle in spalla per poi caricarle sulle Giuliette, si riversano in un tipo di reato nuovo».

Chi gestì questa trasformazione?
«Essenzialmente fu un delitto gestito dal crimine organizzato. Nel Varesotto si erano insediate alcune famiglie provenienti da Calabria e Sicilia. Famiglie legate alle cosche, quella degli Zagari la più nota. Il capostipite, Giacomo, si era sporcato le mani con il
contrabbando di sigarette. Poi la svolta. E negli anni ’90 lo ritroviamo basista di rapimenti, attività nella quale era impegnato da molto prima. Dai tempi del sequestro Riboli».

Parliamone…
«Emanuele Riboli viene rapito il 14 ottobre del 1974, sta tornando da scuola con la bicicletta, lo prendono a Buguggiate. Il rapimento coglie di sorpresa gli investigatori: si perdono ore preziose. Il padre non è ricchissimo, è un carrozziere che però si è reso visibile: ha aperto uno stabilimento in Centro Italia con i soldi della Cassa del Mezzogiorno. Si scopre che c’è una manovalanza di ex contrabbandieri proprio attorno ad Azzate e Buguggiate, gente che si è riciclata nelle anonime, non criminali di serie A, ma personaggi che con i sequestri frequentano una sorta di scuola criminale. Dello stesso periodo casi che fanno scalpore e che colpiscono grandi famiglie come gli industriali dei biscotti Lazzaroni e quelli delle casseforti Parma, entrambi di Saronno».

È solo mentalità criminale o c’è anche rivalsa verso i ricchi?
«La politica non c’entra niente, c’è una logica mafiosa che ti
colpisce negli affetti se sgarri e non obbedisci alle richieste dei
rapitori. Un linguaggio bestiale».

Oggi si parla ancora del sequestro De Micheli, perché fu scelto questo imprenditore di Comerio?
«Tullio De Micheli era un piccolo industriale. Era stato socio di
Giovanni Borghi, ma anche lui, come Riboli, non era un re di denari. Dobbiamo considerare che rapire gente in vista sorvegliata giorno e notte, era molto difficile, mentre poteva essere più semplice scegliere persone defilate. De Micheli viene rapito mentre torna a casa, sulla salita di Oltrona, e non se ne sa più nulla. Un pentito a Vercelli, qualche anno dopo, disse che era rimasto soffocato dalla sua dentiera durante un maltrattamento».

Il terrore torna il 17 febbraio 1989 quando sparisce Andrea
Cortellezzi, figlio di un commerciante di laterizi di Tradate.
«Una vicenda che ha contorni diversi. All’inizio qualcuno dubitò che
fosse un sequestro serio, poi arrivò il lobo di un orecchio da Reggio Calabria. Probabilmente i primi rapitori nel frattempo avevano ceduto l’ostaggio a una banda molto più determinata. Anche Andrea scomparso nel nulla».

Poi, il silenzio, fino al 1990, quando il 18 gennaio vi fu lo strage di Germignaga.
Che cosa accadde?
«Il tentato sequestro di Antonella Dellea è stato l’ultimo episodio
del Medioevo dei sequestri a Varese. Il basista è Zagari, che indica alle cosche  un bersaglio all’apparenza facile. Per l’azione salgono in quattro dalla Calabria, vengono da San Luca e sono collegati con famiglie importanti, come quella degli Strangio e dei Barbaro. Vengono traditi però dal figlio di Giacomo Zagari, Antonio, che diventerà un pentito molto importante e che indicherà ai carabinieri il luogo del rapimento, in anticipo. I carabinieri arrivano e sterminano il commando. Fu una strage molto discussa, si disse che le forze dell’ordine avevano esagerato. E’ un fatto che da quel momento la Calabria dimenticòil Varesotto. Pur con quelle contraddizioni che ancora oggi pesano sul giudizio dei fatti di Germignaga, è innegabile che lo Stato diede un segnale molto forte».

Antonio Zagari, personaggio-chiave….
«Con le sue rivelazioni preziose diventa una sorta di Buscetta, fatte le debite proporzioni. Pentito attendibile, darà poi un grande contributo al processo Isola felice sulle cosche di mafia e ‘ndrangheta infiltrate al Nord. Fu il  pm milanese Armando Spataro a dargli credito e fiducia, inserendolo in un programma di protezione. Ma il suo pentimento ha radici antiche. Antonio Zagari rivelò che il padre era implicato nel sequestro Riboli e che aveva indicato come bersaglio un ragazzino, Emanuele, compagno di giochi di un suo fratello. Antonio si sentì come tradito dal comportamento del padre. E raccontò che quel fatto lo aveva indotto a cambiare strada. Lo scrisse in un libro dal titolo inquietante:  Ammazzare stanca».

Quella stagione generò paura tra gli industriali varesini?
«Credo proprio di sì. C’erano rampolli di famiglie bene che giravano armati e con la scorta. Un gallaratese, non posso fare il nome, trasferì famiglia e affari negli Stati Uniti».

Sappiamo tutto oggi di quelle vicende?
«Le verità processuali ci sono, ma non abbiamo saputo dove sono stati sepolti i rapiti. Ci fu grande inesperienza tra le forze dell’ordine
di fronte a un reato nuovo. Inesperienza e fatalismo: in un caso si andò persino a prendere una sensitiva olandese con un elicottero perché indicasse il luogo della sepoltura di un rapito. Non c’erano le intercettazioni, il blocco dei beni».

Come si comportò la stampa?
«Mi ricordo un episodio:  quando furono ammazzati i quattro calabresi del sequestro Dellea chiamai un comandante della Guardia di finanza che era stato a Varese, e lavorava a Lamezia Terme. Mi disse che i quattro della banda, stando alle sue informazioni, erano stati venduti e mandati al massacro. Lo scrissi  in prima pagina sulla Prealpina del gioco dopo. Fece grande effetto».
 
Potranno tornare i rapimenti?
«Non credo. Oggi ci sono molti strumenti investigativi, potenti strumenti di contrasto. E poi la droga, con i suoi immensi profitti, ha distratto tutte le energie malavitose. È un reato figlio d’altri tempi».

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Pubblicato il 17 Luglio 2007
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