Mi chiamo Chris Capps-Schubert. Signorsì sono un disertore

Fino a poco tempo fa era arruolato volontario nell'esercito americano di stanza a Bagdhad. Adesso denuncia l'assurdità della guerra e protesta fuori dalle caserme Nato

Chris Capps-Schubert è un ragazzo tranquillo, alto e dallo sguardo malinconico, con un viso da liceale che non dimostra neppure i suoi ventitré anni. Chris è un disertore: nell’autunno dell’anno scorso è gone AWOL, come dicono gli americani, ossia assente senza licenza, abbandonando per due mesi il suo reparto, il 440esimo battaglione segnali, allora stazionato in Germania in attesa di trasferimento in Afghanistan. Oggi, martedì 16 ottobre, era di fronte alla base NATO Ugo Mara di Solbiate Olona insieme ad esponenti della rete Disarmiamo la Pace e al giornalista inglese Philip Rushton (foto sotto), autore del libro "Riportiamoli a casa" sul dissenso militare e interprete per l’occasione. Intorno, uno schieramento di forze dell’ordine degno di ben altre minacce che non un pugno di pacifisti e giornalisti, che non ha comunque impedito a Chris di lanciare un messaggio via megafono ai militari impegnati all’interno della struttura. Un messaggio che difficilmente lascerà il segno sui motivati professionisti di Solbiate, ma che ha viceversa attratto molti giovani come Chris ad appendere al chiodo la divisa prima del tempo. (foto sopra:  in primo piano Chris Capps-Schubert all’esterno della caserma Ugo Mara parla con i giornalisti)

La vicenda di Chris è tipica di molte altre e al tempo stesso unica. Cresciuto in una tranquilla cittadina del New Jersey, nel 2004, a vent’anni, con la prospettiva di non avere i soldi per continuare gli studi, Chris si arruola nella riserva dell’esercito. Completato in modo più che soddisfacente l’addestramento di base come specialista in comunicazioni, Chris constaterà di non averne ricavato i benefici economici previsti, e continua a doversi mantenere consegnando pizze porta a porta. A quel punto, e siamo nel 2005, decide di arruolarsi tout court tra le forze attive e viene spedito in Germania. Da lì, il 25 novembre 2005, arriva a
Camp Victory, grande base statunitense vicino all’aeroporto di Baghdad.

Qui il clima che trova è da schizofrenia galoppante. Lui e i suoi compagni di reparto posano e sistemano cavi in fibra ottica per comunicazioni ad altissima velocità, vivono assolutamente al sicuro («mai per una volta mi sono sentito in pericolo» confessa) con tutte le comodità in un’autentica piccola America da esportazione, con tanto di fast food e minimarket. Intorno, rimbombano cupi i boati delle bombe e il sibilo dei proiettili: ci si ammazza come cani dovunque, tranne che nella supersicura base, forse l’unica parte dell’Iraq davvero controllata dall’iperpotenza a stelle e strisce. «La nostra interazione con gli iracheni» racconta perplesso Chris «era semplicemente di controllare strettamente quanti lavoravano presso la base». E date le circostanze, sorprende che gli fosse concesso di farlo. Camp Victory stesso, riferisce ancora il giovane, è gestito in gran parte nond alle forze armate, ma da una potente sussidiaria del gruppo Halliburton, ben noto per i suoi legami con potenti personaggi dell’amministrazione Bush junior e per aver ottenuto la parte del leone nella "ricostruzione" di un Paese piombato nel caos più totale dopo l’invasione. 

«Ho visto non poca corruzione in quell’ambiente, dove pure c’era di tutto. Fra le altre cose ho avuto modo di occuparmi per i miei incarichi di lavoro dell’aeronautica irachena, di quelli che conducevano indagini penali sul comportamento delle truppe d’occupazione, di curare i collegamenti segnali con Abu Ghraib (l’infame carcere delle torture, prima sotto Saddam poi sotto gli americani)…» All’interno, routine, all’esterno l’inferno, a portata d’orecchio ma mai constatato in prima persona. I commenti del generale Sanchez, ex comandante delle truppe di occupazione che ha definito la gestione dell’affaire iracheno come assurda e da incompetenti, lo fanno sorridere. «Sanchez era l’unico che rifiutava le richieste di obiezione di coscienza» risponde asciutto, «me l’ha detto un mio amico che glie ne aveva inoltrate un bel po’».

A settembre del 2006 Chris con il suo reparto rientra in Germania, con la netta impressione di aver sprecato un anno della sua vita per l’esercito. «Trovavo la situazione creatasi in Iraq immorale, e temevo di trovare le medesime condizioni in Afghanistan» spiega semplicemente. Quando apprende che di lì a poco dovrà andare in Afghanistan, decide di disertare. Si rivolge così al Military Counseling Network, un’organizzazione fondata dai Mennoniti, una comunità protestante di origine tedesca, che consiglia i soldati su come fare obiezione di coscienza o evitare pene carcerarie in caso di diserzione. Fra i soci dell’Mcn ha conosciuto la tedesca Meike, che è diventata sua moglie. Sfruttando un breve periodo di licenza prima del trasferimento a Mannheim e da lì in Afghanistan, Chris a quel punto diserta. Solo nel maggio di quest’anno si consegnerà a Fort Sill nell’Oklahoma, «insieme ad altri quaranta disertori», ricevendo dopo tre giorni un congedo "other than honorable", in pratica il peggiore ottenibile senza conseguenze penali, indesiderabili per le forze armate visto l’enorme numero di quanto "abbandonano". Non avrà nessuno dei benefici previsti per i veterani – aiuti per gli studi e l’assistenza sanitaria, ad esempio, che spingono tanti ad arruolarsi come aveva fatto lui.

«Ho deciso di trasferirmi a vivere in Germania, lì perlomeno l’istruzione è gratuita…» dice Chris. Nei suoi occhi l’espressione di un ragazzo finito in un pasticcio molto più grande di lui, molto più grande di noi tutti: la guerra. Una guerra contro un nemico inafferrabile, fanatico e onnipresente, che richiederà chissà quanto tempo per essere ridotto alla ragione. Una guerra condotta spesso nel posto, nel momento e contro i nemici sbagliati, in cui «da un momento all’altro puoi vedere cadere un amico, dover ammazzare della gente, vedere la tua vita sconvolta». Business as usual, in altre parole: ma non per Chris.

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Pubblicato il 16 Ottobre 2007
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