“Maroni? Un tastierista dall’anima nera, quasi un extracomunitario…”

A dirlo è il cantautore e presntatore Enrico Ruggeri "intervistato" da un ministro quasi intimidito. Brillante e pieno di ironia l'autore de "Il mare d'inverno"

Metti un pomerigigo a Villa Recalcati con un ministro dalla tastiera facile e un cantautore dalla vena felice. Questo il canovaccio dell’incontro di domenica, previsto nell’ambito del Festival del Racconto, che ha visto protagonisti il ministro degli Interni Roberto Maroni ed Enrico Ruggeri, uno dei più apprezzati chansonnier del Bel Paese, autore di pezzi memorabili (basti citare "Il mare d’inverno") in anni recenti cimentatosi con buoni risultati nella scrittura e anche come presentatore televisivo. Ad "arbitrare" l’incontro di due personalità distinte ma avvicinate dall’amore per la musica, il giornalista Enzo Gentile. I trascorsi di Maroni alle tastiere con i Distretto 51 sono ben noti alla scena musicale locale, quando a Ruggeri non ha bisogno di presentazioni e non ne ha avute.

Quella di Ruggeri è una figura che parte da lontano, dai primordi del punk milanese anni ’70, che Ruggeri ricorda come una palestra artistica fondamentale. «Mi è rimasto da trent’anni fa l’epater le bourgeois, il non aver paura di salire sul palco. Il punk fu una fucilata nel panorama anni Settanta» dice il cantautore, «dimostrò che non si doveva essere tecnicamente perfetti come i maestri del progressive, che se avevi energia, rabbia, e qualcosa da dire potevi sfondare. Fu l’ultimo grande movimento musicale di base». Del punk gli è rimasto l’instinto di buttarsi, anche nello scrivere. Nel 2007 è uscito "Quante vite avrei voluto. 21 storie al bivio", summa dela sua esperienza telelvisiva su Italia 1 con il programma "Il bivio". «Non esistono vite noiose» dice Ruggeri, «ognuna è degna di essere la sceneggiatura di un film». E la tv? «Ne ero diffidente, ma è un mezzo unico – entri nelle case praticamente senza chiedere permesso, e all’utente non chiede nessuno sforzo o spesa, in pratica. Ho potuto raccontare di come la vita possa essere spettacolare e anche poetica».

Tornando alla musica, è Roberto Maroni, calatosi dai panni del politico sicuro di sè e delle sue opinioni a quelli di un fan quasi intimidito, a prendere la parola. «La mia vera vocazione» dice tra il serio e il faceto «era quella di artista, anch’io provavo a scrivere canzoni, poi visti i risultati, mi sono dato alla politica…» ora scrive decreti, ma , afferma, «è più facile». Di Ruggeri parla come di «uno dei migliori artisti musicali d’Italia, scrittore, intrattenitore televisivo, ottimo scacchista (ha incontrato perfino Karpov!), un solo solo difetto, è interista». Ruggeri ricambia in questi termini:«L’ultimo album dei Distretto 51 è molto sanguigno, Maroni è un tastierista con un’anima nera, pare un extracomunitario» (risate ndr). Non fatelo sapere a Borghezio… Un suggerimento al ministro, che ha poco tempo per le tastiere: «Trovati un sostituto dell’altra parte politica, così ha comunque quattro anni liberi per suonare…»

Ruggeri a domanda risponde di scrivere sempre da solo i testi delle sue canzoni e gran parte delle musiche, magari insieme all’amico "storico", il chitarrista Luigi Schiavone. Maroni si è detto ammirato per il mix unico di parole e musica, equilibrato e felice, che non sempre riesce ai cantautori. «Enrico riesce a combinare bene le cose, a volte con testi “pesanti”, impegnativi, che poi si fanno “leggeri” sulle ali della musica». Ma come nasce un capolavoro come "Il mare d’inverno", scritta da Ruggeri e resa immortale dalla voce di Loredana Berté? Da un classico "bidone" rifilato in pieni anni Ottanta da una ragazza al nostro. «Avevo appuntamento, ci tenevo molto a lei, ero in Porta Romana. Lei non venne. Allora non c’era il cellulare per chiamarla… Tornai a casa con il cuore pesante. In un pomeriggio scrissi di getto Nuovo Swing e Il Mare d’Inverno. Non ho mai benedetto abbastanza quella ragazza: poi le canzoni magari mi sono servite per rifarmi con altre…». Risate e applausi.

L’uso dell’italiano per il rock è però la sfida più affascinante. «L’inglese è adatto per il rock con le sue parole tronche, mentre quelle italiane sono piane o addirittura sdrucciole. Una lingua meravigliosa… e inadatta». Ma come si arriva a comporre così felicemente?, chiede il ministro-intervistatore-tastierista. «Un po’ dono di natura, un po’ autodisciplina, conoscersi, capire quando è il momento. Senso di osservazione, un pizzico di cinismo che ti consente… ops, ho detto ti consente (altre risate con Maroni che quasi arrossisce ndr)» Insomma, non c’è verso di essere troppo seri con un Ruggeri gigione e fine umorista, che non lesina battute.

Ovviamente lo si rivuole a Varese su un palco, è da tempo che non lo si ascolta quassù, «colmiamo questa lacuna» invita Maroni passando a descrivere le sue sensazioni con i Distretto 51. «E’ un’emozione suonare per il pubblico, cerchiamo di valorizzare le canzoni, ognuna per quello che ti dà, sono tutte canzoni diverse ma soul, cioè dell’anima. Non si coglie mai davvero quello che c’è dietro ad ogni brano». Ruggeri è più disincantato, forse, asciutto, professionale, una passione più cerebrale. Concerti in fotocopia? punzecchia Gentile. Eppure i fan, le fan soprattutto, sono sempre lì per Enrico. «Si ha un canovaccio in tour, poi si lima serata dopo serata. Ciononostante non credo in vita mia di aver fatto un concerto uguale all’altro. Li paragonerei all’atto sessuale, anche quello in teoria ha un copione, eppure è sempre piacevole e differente ogni volta». E lui lo dice, che dei sette vizi capitali cui dedicò una lunga canzone in più movimenti ("Le sette sorelle"), se la pigrizia è da riabilitare come saggia risposta al mondo del correre sempre e della guerra di tutti contro tutti, il suo preferito è la lussuria, seguito dalla gola. Le donne sono infatti una costante della sua vita, le cantanti cui ha dedicato splendide canzoni (Berté, Mannoia) o quelle con cui ha intrecciato una forte relazione negli anni (Andrea Mirò), le fan che lo seguono di tappa in tappa. Ruggeri descrive la relazione di coppia con la metafora degli scacchi: in apparenza il re è tutto, ma non può quasi nulla e deve esere difeso dalla sua regina. Il maschio sarà pure il perno, ma è la donna la parte decisiva.

Più complicato il rapporto del cantautore con gli altri artisti, soprattutto gli stranieri: Ruggeri ammettedi non voler pietire permessi per tradurre grandi autori esteri, col rischio magari di vederne frantumare l’immagine di fonte a rifiuti, scortesie e lungaggini. In compenso è riuscito a reinterpretare felicemente altri autori italiani, sia pure di rado e per progetti specifici, «come feci nel 1988 in Unione Sovietica, dove erano molto esigenti e chiesero il meglio della musica leggera di allora».

L’ultimo capitolo è dedicato a Sanremo e al sistema discografico. «Non ci si emoziona» dirà Ruggeri, «ci si distrae, il pubblico dell’Ariston non è di quelli che emozionano, se davanti hai Platinette e Del Noce, la Lollobrigida e Cipollini… E anche lì sulla bontà delle canzoni la Cassazione è il tempo, c’è chi vince e non cava un ragno dal buco e chi perde ma resta nel ricordo». Vincitore nell’87 con Tozzi e Morandi ("Si può dare di più", non era di suo pugno) e nel ’93 in proprio ("Mistero"), Ruggeri confessa la propria fortuna di musicista mai "molestato" da pressioni dei discografici, non essendo uno da un milione di dischi ad album, piuttosto uno che dura nel tempo come un filone coerente. La tv e la musica? «Oggi purtroppo in tv è passata la linea che la musica non fa ascolto, fa ascolto solo lo sconosciuto che canta la canzone famosa. Poi c’è qualche programma tv che ci prova ancora, come Scalo76. Non c’è più promozione, lo spartiacque in negativo è stata la scomparsa di Vittorio Salvetti (patron del Festivalbar ndr) dieci anni fa».

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Pubblicato il 12 Ottobre 2008
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