“Tra gli orfani di Salò c’erano anche i terroristi”

Intervista al giudice Ottavio D'Agostino. Nel suo nuovo libro, "Furore nero", si affrontano i temi che animano il dibattito sui buoni e i cattivi durante la guerra civile

Nel suo ufficio, la copertina del primo volume è incorniciata e appesa al muro. Un’opera che ricostruiva, quattro anni fa, la vita dello zio, dalla carriera di sindacalista fascista al comando di una brigata nera, fino alla morte perché fucilato dai partigiani. Ottavio D’Agostino, di origini napoletane, giudice impegnato nella stagione di tangentopoli, ora presiede la Sezione penale oltre che la Corte d’Assise presso il Tribunale di Varese. Ha appena pubblicato il secondo atto di un’ideale trilogia dedicata al fascismo. «Sto già lavorando ad un volume che riguarderà gli studenti di destra all’università di Napoli nel ’68, un’opera che chiuderà questo mio trittico neofascista».
(foto sopra: il giudice Ottavio D’Agostino)

Un ritratto impietoso, quello del neofascismo che ha affidato al libro “Furore nero”. A partire dallo stretto rapporto con il terrorismo fin dalle origini. È così?
«Sì, il terrorismo è una scelta già presente allora, come dimostra il volume del giornalista del “Corriere”, Antonio Carioti, dal titolo “Gli orfani di Salò”. Il mondo dei reduci di Salò era estremamente differenziato. C’erano i delusi che addirittura approdarono al Pci, c’erano i nostalgici che speravano in un colpo di Stato al momento del referendum istituzionale su monarchia e repubblica, c’erano gli sbandati. Un mondo in cui si muove il protagonista del mio romanzo».
Anche altri magistrati sono diventati scrittori, come Gianrico Carofiglio. Perché lei ha scelto di dedicarsi a fascismo e neofascismo?
«Carofiglio è un eccellente giallista, oltre che un mio caro amico, e ha scelto di raccontare storie imperniate sulla figura dell’avvocato Guerrieri. Io, invece, parlo di un periodo che mi ha sempre affascinato, a cui ritorno anche per ragioni famigliari. Mio padre era un fascista, che rientrò dalla prigionia coltivando molto rancore. Mio zio fu fucilato dai partigiani. Così ho deciso di approfondire leggendo saggi e la memorialistica del periodo».
Cosa pensa della rilettura del “sangue dei vinti” proposta da Giampaolo Pansa?
«Considero Pansa un uomo tendenzialmente di sinistra, che ha raccontato al grande pubblico fatti e circostanze relativi ai lati oscuri della Resistenza, ma che gli addetti ai lavori conoscevano da tempo. Una grande operazione commerciale».
C’è il rischio che dal suo libro esca un’immagine negativa della Resistenza e dei suoi eccessi?
«Il mio libro non è un attacco alla Resistenza, ai suoi valori immutabili e positivi. Coloro che si sono resi responsabili di delitti e vendette non erano veri partigiani, ma erano espressione di quella fanghiglia che ogni sommovimento storico si porta dietro».
Tra i personaggi più riusciti c’è una donna, Lisetta. Perché è di fede monarchica?
«Grazie a Lisetta ho voluto fare un atto di giustizia. Ricordo che da giovane studente universitario napoletano, monarchici e liberali erano spesso apparentati ai fascisti. Non è così: come dimostra l’episodio del San Martino a Varese, i monarchici hanno partecipato alla Resistenza. Una verità storica che mi piaceva ristabilire anche nelle pagine del mio romanzo».

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Pubblicato il 03 Ottobre 2008
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