Nikolajewka, 66 anni fa la tragica epopea degli Alpini in Russia

Il 26 gennaio 1943 la divisione Tridentina, ultima rimasta in grado di battersi, sfondava d'impeto l'ultima linea d'accerchiamento sovietica trascinandosi dietro i resti dell'Armir

Nikolajewka, quella in Russia, non esiste più. E’ stata fagocitata da Livenka, il grosso borgo cresciuto enormemente nel dopoguerra. In Italia, però, il nome di Nikolajewka risuona ancora, sui monumenti ai caduti, nei nomi delle vie dei paesi delle valli e di collina, nei nomi dei rifugi tra i silenzi delle Alpi. È il ricordo della battaglia per noi più tragica della Seconda Guerra Mondiale, combattuta da migliaia di fanti e alpini italiani per aprirsi il varco verso l’Italia, verso la Patria, verso la “piccola patria” dei mille villaggi da cui venivano. Per “tornare a baita”, come scriverà Mario Rigoni Stern.

Ce la fecero in  tanti, ma migliaia restarono lì, tra le nevi dell’inverno russo. Strano ricordare una battaglia che fu sì vittoriosa, ma che concludeva una disastrosa ritirata, una corsa disperata verso casa. Erano soldati di un esercito invasore, che però speravano in quello in cui tutti gli uomini sperano: tornare alla pace, immaginare un futuro di pace, una casa.

Sessantasei anni fa, il 26 gennaio 1943, in una pianura battuta dal gelido respiro della Siberia, il buran, si scriveva a lettere di sangue una delle più tragiche e gloriose pagine della storia militare italiana Nulla più che una noterella a margine della Grande Guerra Patriottica per i russi e per gli altri popoli ex sovietici, per noi italiani la battaglia di Nikolajewka, episodio di disperata abnegazione, di coraggio suicida e di improvvisazione letteralmente “con quel che c’era” è motivo di intensa e non retorica commozione.

Fu lo scontro finale per uscire dalla “sacca” in cui il fianco settentrionale dell’Ottava Armata italiana (ARMIR) del generale Gariboldi, tenuto appunto dal corpo d’armata Alpino (divisioni Julia, Cuneense, Tridentina) del generale Nasci, era stata infilata dai sovietici. L’Armata Rossa si era lanciata nella più classica delle sue offensive invernali, attuata in condizioni climatiche disumane, con trenta o quaranta gradi sottozero ogni notte e bufere terribili. Piegato nonostante la valorosa resistenza di vari reparti (fra cui brillava il battaglione alpini sciatori Monte Cervino) il fianco sud italiano, colpito già a metà dicembre dall’operazione Piccolo Saturno, in gennaio i russi travolsero gli ungheresi a nord del corpo d’armata alpino, che si trovo così circondato sulle posizioni che dall’estate difendeva ostinatamente lungo il Don.

La tragica ritirata iniziò la notte del 17 gennaio 1943: In Italia, dell’ordalia che seguì si sarebbe saputo soltanto a distanza di mesi, con il ritorno dei primi sopravvissuti. Solo degli alpini, ne tornarono appena 11.000 sui 57.000 schierati in quel fronte. Erano i nostri migliori reparti dell’esercito: furono annientati combattendo in pianura, con fucili, cannoncini anticarro , contro i mitra parabellum e i T-34 dell’Armata Rossa. Non c’è migliore epitaffio per la follia della guerra fascista. Morirono crollando a terra vinti dal gelo, implorando un aiuto che pochi avevano ancora la forza di dare; morirono combattendo armi in pugno per aprire la strada ai compagni; morirono finiti a baionettate dai sovietici nelle atroci marce del davai (avanti!); morirono di freddo sui carri merci scoperti che li portavano nei campi di prigionia; morirono di fame, prima, e di tifo poi, nelle mani dei russi, penosamente impreparati a riceverli e indifferenti alla loro sorte, dopo aver visto perire venti milioni dei loro, assassinati dai nazisti.

Quando la colonna, ridotta forse a un quinto delle dimensioni originarie, giunse a Nikolajewka, le divisioni Julia e Cuneense non esistevano più: dopo aver resistito per un mese sul fianco sud furono polverizzate in combattimento, gli ultimi reparti, ormai senza munizioni e armi d’accompagnamento, costretti alla resa. La sola Tridentina del generale Reverberi, con i resti frantumati di altri reparti, dovette andare all’assalto del villaggio, oggi frazioncina di Livenka, per il quale passava la ferrovia, una linea di metallo che per tutti arrivava dritta “a baita”, a casa. In un primo assalto i battaglioni Vestone, Verona, Valchiese e Tirano si fecero falciare dalle mitragliatrici dei russi, forse sorpresi dal numero degli attaccanti. Alla fine i battaglioni Edolo e Valcamonica e l’intera divisione, in testa il generale Reverberi, al grido di “Tutti i vivi all’assalto“, sostennero un estremo attacco “a ondata umana” e sciamarono nell’abitato, aiutati da un unico cannone semovente tedesco e dagli ultimi mortai funzionanti, rompendo l’ultimo sbarramento sovietico in direzione delle (allora) “amiche” linee germaniche. Caddero sul posto circa tremila uomini, senza contare chi morì in seguito per le ferite e i patimenti subiti marciando nella neve per quasi due settimane, con scontri quotidiani con partigiani e colonne corazzate dell’Armata Rossa. Cadde in testa ai suoi uomini anche il generale di brigata Giulio Martinat, capo di stato maggiore del corpo d’armata alpina.

“Andarono avanti” (morirono, nel gergo alpino ndr) a migliaia perchè alcuni potessero tornare indietro e raccontare: i Nuto Revelli, i Giulio Bedeschi, i Mario Rigoni Stern e tanti, tanti altri senza ambizioni letterarie ma con un tesoro di ricordi e di ammonimenti per le generazioni a venire. Portarono in Italia la vergogna e la rabbia di un guerra combattuta in condizioni di penosa inferiorità di mezzi – e per settimane non li si volle far vedere a nessuno, per come erano conciati al ritorno. Solo i già fascisti avrebbero aderito a Salò: dopo l’8 settembre di quel fatidico 1943, anno decisivo della storia italiana, la gran parte strinse i denti e soffrì in silenzio con dignità nel lager tedesco, o armò la sua rabbia e prese la strada della montagna, per costruire un’Italia nuova.

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Pubblicato il 26 Gennaio 2009
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