Il trumbèe dei frigoriferi

Il racconto del giornalista Gianni Spartà che ha scritto un libro sulla vita dell'imprenditore Giovanni Borghi, padre della Ignis

La tentazione è di ricordare il cumenda col vocione rauco che diceva a tutti ghe’ pensi mi, il formidabile frequentatore di casinò, il focoso patron di pugili, ciclisti, calciatori e giocatori di basket mantenuti come gladiatori alla corte di Comerio. La voglia è di privilegiare la poderosa aneddotica fiorita attorno al Gran Sultano di Varese che si presentava al palasport di Milano durante la Sei giorni con un codazzo di soubrette. Oggi le chiameremmo veline.
E’ più facile, insomma, celebrare il personaggio dalla simpatia contagiosa («ancora un po’ che rimanevo a casa sua ne sarei uscito con la maglia della Ignis sulle spalle», scrisse Indro Montanelli), magari raccontando la leggendaria avventura ecologista di cui fu protagonista nei primi anni ’60: siccome le rondini con volevano saperne di emigrare, paralizzate da un grande freddo, il padrun dal cuore tenero ordinò al suo pilota Piero Torri di prendere l’aereo personale e di andarle a raccogliere in una decina di capitali dell’Europa del Nord. Ci fu un fantastico trasbordo di volatili chiusi in gabbie di cartone, seguito da una festosa liberazione su una pista dell’aeroporto di Napoli. Un jet trasformato in Arca di Noè aiutò la natura a riprendere i suoi ritmi. Tutto vero, ci sono le fotografie.
Ma così facendo si oscurerebbe la storia di Giovanni Borghi industriale di gran genio che ha avuto poca giustizia nel tribunale della memoria. Alla stregua di Rizzoli, Moratti, Ferrari, Mattei, il trombèe diventato re dei frigoriferi ha marchiato indelebilmente un’epoca, ma la sua vicenda, svoltasi nel ridotto di Varese, quasi Svizzera, non a Roma o a Milano, esaurito il lampo, è finita in un cono d’ombra.
Eppure Giovanni Borghi (1910-1975) esemplifica, forse più di altri, gli anni del miracolo ed è il simbolo – come disse di lui Giovanni Agnelli – «della più felice stagione dell’imprenditoria italiana». Raro che il Principe di Torino si sbilanciasse: lo fece per “mister Ignis”, memore, tra l’altro, del famoso 5-0 che il Varese presieduto da Borghi aveva inflitto alla sua Juventus nel campionato di calcio del 1968. Tre gol di aveva segnati Pietruzzu Anastasi che poco dopo andò a servire la Vecchia Signora sfrontatamente vilipesa. E l’ingaggio di 660 milioni fu pagato metà in contanti, metà in compressori Fiat destinati ai frigoriferi Ignis.
Già, Ignis era un marchio di ferri da stiro: Borghi lo acquistò da un commerciante di Milano, facendone la bandiera del riscatto economico italiano. Un giornale britannico scrisse che Mattei aveva procurato il gas al Bel Paese e Borghi gli aveva dato fuoco mettendosi a costruire fornelli. Poi vennero i frigoriferi, le lavatrici, le lavastoviglie. Come? Con le inarrivabili intuizioni industriali di uno che era padrone e primo operaio e che a modo suo, con sani metodi da osteria, ha attraversato la società a tutti i livelli, dai club esclusivi ai luoghi del popolo, dando del tu a Ranieri di Monaco come fosse un giocatore delle sue squadre.
La maschera del cumenda inguaribilmente bauscia tradisce la tempra dell’imprenditore razza che ha inventato la comunicazione industriale mediata dalla sport per rendere popolari i suoi prodotti. «Lo zio Giovanni? Un Berlusconi senza laurea», ha azzardato in un’intervista il nipote Fedele Confalonieri.
Ci sono ancora le fabbriche tirate su da Borghi a Varese, a Trento, a Siena, a Napoli e questa è la singolarità rispetto ad altre storie di capitalismo familiare. Ci sono ancora tutte, segno che erano nate solide, e le governa la multinazionale Whirlpool, cioè un simbolo di quell’America alla quale il Joan Padan dell’Isola Garibaldi aveva rubato il segreto delle schiume poliuritane negli anni ’50 per isolare bene i suoi frigoriferi e renderli meno goffi, più capienti.
Gran lombardo, forse prototipo del nordista si dice di Giovanni Borghi e si dice il vero. Egli fu tra i primi industriali che andarono a investire a Sud, a Napoli precisamente, dove una sua fabbrica produceva lavatrici e una squadra di basket giocava in serie A pubblicizzando in marchio Fides. La Fides Partenope di Maggetti, Bovone e Gavagnin. E fu anche, Borghi, tra i primi a sperimentare la Cassa del Mezzogiorno della cui evanescenza si lagnò, a suo modo, sulla tv di Stato intervistato da Paolo Cavallina ed Ettore Della Giovanna. Accadde un putiferio perché il cumenda, stuzzicato da una domanda sull’arretratezza del Sud contadino rispetto al Nord industriale, si giocò il carico: «Io ho dovuto costruire uno stabilimento più grande a Napoli e ho avuto difficoltà enormi per trovare un terreno. La Cassa del Mezzogiorno che cosa fa? Dovrebbe assistere l’imprenditore che invece si imbatte in intermediari che intascano la bustarella».
Era la sera del 17 giugno 1961, la prima volta della parola “bustarella” pronunciata in tv da un kamikaze in abito grigio appassionatamente verace e teatralmente intrigante. Appare profetico un ritratto di Giovanni Borghi tracciato da uno scrittore americano, John Philips, in un libro uscito negli anni del boom: «E’ popolare perché l’uomo della strada si identifica in lui come di solito non avviene, nel Bel Paese, con gli altri pezzi grossi». Non solo popolare, aggiungiamo: «La mia vita ha avuto un senso – si confidò il cumenda qualche giorno prima di morire di cancro a 65 anni – perché credo che nessuno mi abbia mai odiato».

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Pubblicato il 21 Settembre 2009
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