Da Cassano agli Usa per vincere la cecità

La storia di Andrea Giani che fa il ricercatore alla Harvard Medical School: lavora con le nano tecnoclogie per curare malattie alla retina. "Studio qui perchè in Italia non ci sono risorse"

andrea gianiNano particelle e cellule staminali erano due termini quasi sconosciuti fino a pochi anni fa. Oggi rappresentano la frontiera della medicina e non c’è giorno che non venga pubblicato il risultato di qualche ricerca. Argomenti che sembrano lontani dal vissuto di ogni persona e che invece rivoluzioneranno la vita e soprattutto permetteranno di affrontare sofferenze e patologie con ben altre possibilità.
Per gli scettici basterebbe pensare alla scoperta della penicillina. Prima di allora si moriva per una polmonite.
Uno dei centri più importanti al mondo per la ricerca scientifica è la Harvard Medical School a Boston. Da marzo, Andrea Giani è lì a studiare le retinopatie, ossia la prima causa di perdita della vista. Trent’anni, laureato in medicina a Milano, ha lavorato all’ospedale Sacco e aveva già aperto un proprio studio nella sua città a Cassano Magnago. Poi la passione per la ricerca lo ha spinto oltre oceano. «Quando il mio professore Giovanni Staurenghi mi ha chiesto di proseguire il suo lavoro non potevo dire di no. Era un’opportunità incredibile».
E cosa fa qui?
«Faccio ricerca sulle patologie retiniche con degenerazione maculare. Non posso fare il medico perché dovrei sostenere diversi esami. Il progetto comunque è quello di acquisire ulteriori competenze in materia e poi tornare in Italia. Mi dedico quindi alla ricerca di base in laboratorio sperimentando una terapia con le nano particelle in grado di ricostruire i vasi sanguigni malati e al tempo stesso provare un gene che induca le cellule malate a morire da sole».
Boston dal PrudentialE come mai qui ad Harvard?
«Questo è un centro di eccellenza. Il professor Staurenghi ha lavorato qui con Joan Miller che aveva scoperto la fotodinamica che era l’unica terapia prima che si scoprissero i farmaci anti V.E.G.F. che servono a fermare le patologie retiniche umide. Le terapie precedenti che andavano a bruciare le parti malate facevano veri disastri. Adesso almeno con i farmaci si blocca la degenerazione».
E cosa c’entrano le nano particelle?
«Oggi abbiamo tantissime conoscenze a livello medico, ma più si va nel dettaglio e più le cose diventano delicate. Questo vale molto per le cellule. Spesso, in caso di patologie, è come se stessimo sparando a un moscerino con un cannone. Magari lo prendi ma intanto fai altri bei disastri. Le nano particelle permettono di andare sempre più nel dettaglio evitando questi problemi».
E le cellule staminali?
«Queste sono un’altra “moda” della ricerca medica, ma hanno delle potenzialità enormi. Soprattutto in materia di retinopatia, che è una patologia degenerativa dove finora siamo stati in grado solo di bloccare l’avanzare della malattia, e nel caso della patologia secca non abbiamo proprio terapie. L’idea è quella di ricercare nelle staminali un’ulteriore risposta per curare».
Harvard medical schoolE a che punto siamo?
«Due mesi fa su Nature è stata pubblicata una ricerca che dimostrava che le cellule staminali embrionali possono differenziarsi in fotorecettori e in cellule dell’epitelio pigmentato retinico. Una scoperta importante per curare le degenerazioni maculari e penso che lo stesso si possa provare con le staminali del liquido amniotico»
Nasce da qui la collaborazione con il Biocell?
«Si. È stato casuale perché loro sono arrivati qui a Boston proprio quando si inizia a ragionare su uno sviluppo della ricerca verso le staminali del liquido amniotico. Abbiamo così avuto degli incontri e poi si è partecipato a un bando di ricerca del ministero della sanità italiano che coinvolge il Policlinico di Milano, la Toma di Busto Arsizio e il Biocell qui a Boston. Tutti questi in collaborazione con la Harvard Medical School che cofinanzierà la ricerca. In questa prima fase vorremmo provare lo stesso protocollo sperimentato per le staminali embrionali per quelle del liquido amniotico, perché siamo convinti che queste siano più stabili e sicure. In un primo momento faremo sperimentazione sugli animali e se i risultati saranno soddisfacenti si potrà passare sugli uomini».
E quali sono i tempi?
«Ci sono segnali che fanno sperare che i risultati non siano lontani. Si parla di pochi anni».
Come mai per fare ricerca spesso si deve andare all’estero?
«È una questione di risorse economiche e di cultura. Tante cose da noi non si potrebbero fare. In Italia esistono solo tre, quattro centri di ricerca a livello degli Stati Uniti e ognuno di questi ha avviato pochi progetti. Basta pensare che solo a Boston ci sono tantissime università e ognuna di queste ha venti, trenta progetti finanziati. La ricerca con il modello animale, essenziale per fare passi avanti, costa tantissimo anche per la cura che bisogna avere verso gli animali stessi».
Harvard medical schoolCi sono tanti italiani?
«Non molti. Nel mio laboratorio ci sono solo io e poi tanti giapponesi e greci, qualche tedesco, coreano, irlandese e pochi americani».
Dove vive e come si trova qui?
«Condivido un appartamento in centro a Boston. La città è molto bella e mi sono ambientato subito. È una realtà aperta e multirazziale. In ospedale poi è facile perché c’è un grande rispetto. Mi manca un po’ la parte clinica perché qui posso esercitarla solo alla presenza di un medico statunitense, ma intanto sto facendo un’esperienza straordinaria».
Ogni quanto tempo torna in Italia?
«È previsto un paio di volte all’anno. Avevo anche aperto un mio studio a Cassano, ma ora ci lavora un collega. L’anno prossimo parteciperò comunque a due importanti convegni a Bruxelles e a Milano e sarà una buona occasione per passare da casa».

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Pubblicato il 01 Novembre 2009
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