“La fuga di cervelli non è solo un problema italiano”

Il rettore dll'Insubria spiega le differenze tra il nostro e il sistema statunitense. "È il sistema delle fondazioni private e il rapporto diretto con gli sudenti la vera marcia in più"

renzo dionigi"La fuga di cervelli non è un fenomeno tipicamente italiano e riguarda tutti i paesi europei. Sulla consistenza del fenomeno non ci sono fonti certe e gli unici dati che si dispongono sono quelli dell’ufficio per l’immigrazione statunitense. Il nostro paese comunque è al settimo posto in Europa nelle scienze biomediche". Renzo Dionigi, rettore dell’Università dell’Insubria ha ben presente il problema della ricerca e dei ricercatori in Italia. La sua intervista arriva proprio nel giorno in cui il direttore generale della Luiss Pier Luigi Celli ha scritto una lettera al figlio invitandolo a lasciare l’Italia.
"Ho iniziato a Cincinnati la mia attività in quel campo. Sono stato quattro anni negli Stati Uniti e ci torno frequentemente grazie a una serie di rapporti con la Harvard medical school. Il nostro sistema e il loro ha profonde differenza e alcune di queste spiegano bene il fenomeno della ricerca. Le loro Università possono vivere grazie alle fondazioni private che le sovvenzionano. L’altro grande punto a loro favore è il rapporto diretto con studenti e ricercatori. La selezione avviene a seguito di colloqui personali e non di semplici test come da noi. Basterebbe questo a capire come la scelta di un giovane piuttosto che un altro si può basare sulle effettive caratteristiche del soggetto. I test volevano cancellare quella terribile pratica delle raccomandazioni, ma ora tutto è banalizzato".
Come mai continua però questa "fuga di cervelli"?
«Negli Stati Uniti la ricerca ha un’organizzazione molto precisa. Faccio un esempio semplice. In un laboratorio lavora uno, massimo due ricercatori e ognuno di loro ha dei tecnici e una segretaria che svolge il lavoro burocratico. In due anni si possono pubblicare risultati e far progredire così il lavoro. Nel nostro paese abbiamo tre ricercatori e nessun tecnico o altre figure. Basterebbe questo a capire come esista anche un problema di ruoli. Resta poi la questione fondamentale dei finanziamenti. Se andiamo al Mit a Cambridge la prima osservazione, oltre al restar stupiti per le dimensioni delle strutture, è il fatto che ogni palazzo è intitolato a una grande corporation che sono poi le stesse che finanziano direttamente le ricerche. C’è un rapporto organico tra l’economia, la formazione e la ricerca. Da noi non rischia nessuno perché va detto che la ricerca è un investimento pericoloso perché può portare grandi risultati, ma anche arrivare a vicoli ciechi. Anche qualche grossa società italiana alla fine preferisce andare direttamente negli Stati Uniti».
Come mai?
«La prima ragione è che lì è tutto detassato, perciò la fondazioni e le aziende hanno tutto l’interesse a investire. Poi perché le ricerche sono maggiori e più sviluppate e qui diventa un cane che si morde la coda e un po’ dipende anche da noi cambiare questa situazione».
Ma con le nuove tecnologie, con la possibilità di conoscere come funziona il resto del mondo, come mai non si riesce a cambiare questa situazione?
«Le ragioni sono diverse. Posso dirle che ci sono resistenze anche interne al mondo accademico e della ricerca, ma le ragioni principali sono quelle che indicavo prima anche di carattere economico. Certamente con l’avvento di internet molto sta cambiando perché la possibilità di far correre in modo più veloce le notizie, scambiare informazioni e soprattutto accedere alle biblioteche dati di tutto il mondo semplificano molto il lavoro del ricercatore».
Cosa sta facendo l’Università dell’Insubria in campo internazionale?
«Abbiamo molti rapporti e per restare agli Stati Uniti stiamo da tempo usando gli stessi protocolli medici con due importanti strutture di Boston, il Medical general hospital e il Beth Israel hospital. Con loro abbiamo continui scambi e incontri periodici. Un’attività che, anche grazie al rapporto con Martin Mihm che è il massimo esperto mondiale di melanoma, ha portato alla nascita dell’Insubria internazional summer school che finora ha realizzato cinque convegni. I docenti arrivano per metà dalla Harvard medical school e per metà da varie realtà italiane. Abbiamo una forte presenza di partecipanti stranieri».
A proposito di Boston e di Harvard nelle scorse settimane è partita la struttura statunitense del Biocell per la ricerca sulle cellule staminali del liquido amniotico. Avete rapporti con loro e che ne pensa?
«Ho seguito questa impresa ed è un esempio positivo di quello che possiamo fare come italiani. Siamo molto considerati e stimati. Quanto alla ricerca sulle staminali sono convinto che lì ci sia il futuro della medicina. Come dicevo ci sono sempre dei rischi, ma questo campo è davvero affascinante e ci sono già dei riscontri seri per quanto riguarda la cardiologia, l’oncologia e la dermatologia».
L’Insubria è interessata a questo campo?
«Ci sono già tre ricercatori che si stanno occupando di cellule staminali e sarà nostro interesse allargare le collaborazioni».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 30 Novembre 2009
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