La guerra bianca: ricordare la Grande Guerra, fra rabbia e pietà

Mark Thompson, letterato e storico di scuola oxfordiana, ha tradotto Umberto Saba e Lucio Magris ed è un ottimo conoscitore del nostro Paese


"La guerra bianca" di Mark Thompson e pubblicato da il Saggiatore racconta la tragedia della Prima Guerra MondialeOggi, 11 novembre 2009, ricorrono i 91 anni anni della conclusione della Prima Guerra Mondiale. Se infatti per noi italiani la data canonica è quella del 4 novembre, con l’armistizio di Villa Giusti che vide l’Impero Austroungarico capitolare di fronte alle armate del generale Diaz, fu solo l’11 di novembre, alle 11 del mattino, che si smise di sparare anche sul Fronte occidentale, il più sanguinoso e noto del conflitto, dove verso la fine si batterono e morirono anche migliaia di italiani.
La conflagrazione diede alle fiamme l’Europa, aprendo quella che gli storici più lungimiranti, sommandola alle diattuture totalitarie alla seconda guerra mondiale, hanno definito una seconda Guerra dei Trent’Anni, combattuta non con picche, moschetti e mercenari, ma con cannoni, gas tossici, aerei e mitragliatrici, da eserciti di popolo, da nazioni intere. Ripercorrere queste pagine di orrore e follia nazionalista, che alla sensibilità di noi figli dell’Unione Europea appaiono tanto più assurde con il passare dei decenni, diventa col tempo un dovere anche di rispetto verso gli innumerevoli caduti.
L’Italia da sola ne ebbe quasi settecentomila, oltre ad un milione di feriti, in gran parte invalidi per il resto dei loro giorni: un trauma mostruoso per un paese che allora contava 35 milioni di abitanti, con percentuali di analfabetismo da far venire i capelli bianchi e una miseria diffusa al Nord come al Sud.
A ripercorrere queste pagine di storia patria dimenticate è il libro di un autore inglese, Mark Thompson, letterato e storico di scuola oxfordiana, traduttore di Umberto Saba e Lucio Magris e ottimo conoscitore del nostro Paese.
"La guerra bianca", edito da Il Saggiatore, è un testo pregevole, se lo si legge sotto il profilo dell’intenzione. Volendo giudicarne il valore unicamente da un punto di vista spassionato e freddo di analisi storica, ci si scontra con l’irriducibilità dei giudizi dell’autore.
Al centro dell’opera di Thompson vi è un sentimento inevitabile per la mentalità corrente: la pietà per le vittime e la condanna dei seminatori di odio. Il volume ripercorre cronologicamente la grande tragedia. Si parte dalla zoppicante neutralità di un’Italia che, per chi se ne fosse dimenticato, era tecnicamente alleata e amica di Germania e Austria-Ungheria salvo poi cambiare fronte (anche per la dura realtà dei rifornimenti di materie prime, con i mari dominati dai franco-britannici) e scatenare, unica tra le nazioni vincitrici del conflitto, una guerra d’aggressione contro un avversario già piegato dalla lotta che per primo aveva iniziato contro il colosso russo e la ringhiosa Serbia. Le undici successive offensive sull’Isonzo di Luigi Cadorna, massacrato dal Thompson sul piano professionale ed umano, come vari altri sciagurati comandanti (Capello, Badoglio, ecc.) sono illustrate con penoso dettaglio, e si apprende di fatti dimenticati da tempo, di cifre che risultano difficili anche solo da credere. L’opera si disunisce in qualche modo concentrandosi forse troppo poco sugli altri fronti, per nulla trascurabili, del conflitto alpino. Poco spazio, troppo poco, è dedicato alle lotte ferocissime sull’Altopiano di Asiago, sul Pasubio, sulle Dolomiti, fra i ghiacciai: di "guerra bianca" se ne parla pochino, in effetti. E la percentuale di spazio dedicata a Caporetto, al Piave, al Grappa, al Montello, alla limitata ma utile partecipazione di forze alleate nel 1917-1918 (sempre minimizzata dalla storiografia) “manca di sale” confronto alla descrizione a tinte fortissime del fronte isontino, un mare di fango cataerizzato dal fetore di escrementi e cadaveri. Elementi di novità sono introdotti, infine, con un principio di analisi sulle condizioni di prigionieri, deportati e civili delle zone occupate.

"La guerra bianca" non è un libro "neutrale"
: vi si percepisce una forte corrente ideale. È l’ottica di un autore di inizio Duemila che non si capacita della pazzia di una guerra in cui masse immane di uomini reclutati a forza, e tenuti in trincea con la forza – le crudeli rappresaglie e decimazioni di Cadorna sono citate con disgusto e rabbia – venivano scagliati gli uni contro gli altri per obiettivi territoriali a volte meschini. Magari nemmeno supportati dalla volontà attiva di quanti li abitavano. Trento e Trieste, si ricava dalla lettura del volume, non valevano certo quel bagno di sangue; nè lo valevano le idee bellicose dei pur originalissimi futuristi, quella della "guerra sola igiene del mondo". Che difatti ne spazzò via buona parte: e parliamo di geni ruggenti come Boccioni o Sant’Elia.
Alle radici della Grande Guerra Thompson coglie infatti l’emergere prorompente della filosofia del vitalismo. Fenomeno mai formalizzato, reazione tardo-ottocentesca al positivismo, al marxismo, al socialismo e alla democrazia liberale, questo pensiero si esplicò nelle forme artistiche e nelle provocazioni del futurismo, ma anche nell’emergere sinistro del razzismo biologico e ideologico, del darwinismo sociale non come presa d’atto, ma come compiaciuta razionalizzazione dei privilegi, del potere, della violenza.
In altre parole, le radici del fascismo, innestato sulla figura di Gabriele D’Annunzio, stroncato come "cattivo maestro" dall’autore, e di Benito Mussolini, allora giornalista ambizioso e privo di scrupoli prezzolato dai franco-britannici per far entrare l’Italia in guerra prima, e tenercela poi.

Esiste in questo quadro, chiaramente, il rischio di una lettura teleologica della storia, ossia di tendere ideologicamente alle conseguenze più o meno lontane, e già note, dei fatti che si narrano. Dalla Grande Guerra fu partorito il fascismo, dopo un’operazione propagandisica incredibile – quella di Fiume – che trasformò una soffertissima vittoria sul campo in una sconfitta al tavolo delle trattative. Qualcuno ha descritto la storia della Germania come una serie di storture che inevitabilmente avrebbero portato ai forni crematori di Auschwitz. Lettura chiaramente errata e irrispettosa dei grandi valori di quella nazione. Il quadro presentato da Thompson per l’Italia non può però lasciare indifferenti. L’autoritarismo feroce, il classismo, l’ideologia roboante delle destre, la debolezza e moderazione delle sinistre sono lo sfondo delle sofferenze inaudite dei "valorosi per forza" in grigioverde. L’irredentismo era patrimonio di classi medie, persone istruite dalle maldigerite letture e dagli entusiasmi puerili: al massacro ci andarono però soprattutto i contadini, gli umili. Relativamente meno gli operai, contro cui nel dopoguerra il fascismo potè giocare la facile carta degli “imboscati” (servivano alla produzione di guerra). Un’Italia grottesca, da “imperialismo straccione”, quasi lombrosiana prima di tutto nella sua classe dirigente quella descritta dal Thompson. Eppure anche fra le masse il valore c’era, la convinzione della causa giusta non mancò, o fu fatta introiettare in seguito da decenni di propaganda patriottarda fascista e non. L’ultimo protagonista vivente di quei fatti, Delfino Borroni, si è spento un anno fa a 110 anni (qui una sua intervista del 2004 su Varesenews).

In generale, siamo di fronte ad un libro che non riesce a sfuggire all’ottica di una visione politica, di un giudizio: che riporta quindi a noi la Grande Guerra come una cosa viva, non ancora superata nelle conseguenze morali, un monito per il presente e il futuro. Un grido di dolore contro le guerre, e contro il potere che ne muove i fili senza (quasi) mai pagarne le conseguenze.

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Pubblicato il 11 Novembre 2009
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