Addio a Cazzullo, padre della psichiatria

Se ne è andato ieri a 95 anni Carlo Cazzullo, nella sua Milano. Era nato a Gallarate (Varese) il 30 gennaio 1915

Riceviamo e pubblichiamo un ritratto dello psichiatra Carlo Cazzullo, scritto da Pierangelo Garzia

Ora tutti parleranno del “padre della psichiatria italiana”. E in effetti lo era, essendo riuscito a separare la neurologia dalla psichiatria attraverso una legge che, dopo molte peripezie e anticamere, si vide approvare, lui democristiano, anche dai comunisti (aveva curato, da par suo, il figlio di un parlamentare del PC e questi gli fu riconoscente). E successivamente a creare, in pratica, tutte le cattedre e gli istituti di psichiatria esistenti in Italia.
Memorabili le sue lezioni e i suoi seminari all’Ospedale psichiatrico Paolo Pini, quartiere milanese di Affori (solo “Affori” per Cazzullo), a cui, negli anni Sessanta, oltre agli studenti e specializzandi, poteva accadere partecipassero anche giornalisti come Giampaolo Pansa. O, come egli stesso rammentava divertito, un vigile urbano “appassionato di psichiatria”. Erano gli anni dell’antipsichiatria, di Basaglia, e Cazzullo seguiva invece una via psichiatrica più cauta, conscia delle difficoltà che la disciplina avrebbe dovuto ancora affronatre. Sia sul piano scientifico che clinico.
Erano gli anni in cui arrivò una delegazione di psichiatri dalla Cina comunista (c’è una bella foto di Cazzullo che parla ai colleghi del celeste impero, tuti riuniti attorno ad un tavolone). Oppure studiosi diventati di culto, come lo psicoanalista Michael Balint. Per tutta la vita Cazzullo è stato un entusiasta, pur con momenti di stanchezza e malinconia. Da cui però sapeva riprendersi, grazie al suo grande amore per la psichiatria, la neurologia e, in seguito, le neuroscienze. Ma anche per la cultura in generale, specialmente quella classica, storica e filosofica. E per la musica. Sempre attento e vigile sulle nuove scoperte. Sempre pronto ad ascoltare persone di ogni età, anche giovanissime. Sempre rapido nell’apprendere qualcosa nuovo.

Ho avuto la fortuna di frequentare la sua casa e l’ampio studio ricolmo di libri e onorificenze,  all’ultimo piano di Piazza Duse 1 a Milano, in coincidenza della fermata metrò di Palestro, percorrendo l’arco proprio di fronte al museo di Storia naturale. Lo incontrai a lungo, raccogliendo ore e ore di registrazione, difficoltosamente trascritte, e copie di documenti, per ricavarne una biografia. Ai due lati del vasto appartamento vecchio stile, con bellissime balconate, vi erano i due studi: il suo e quello della moglie, la neuropsichiatra infantile Adriana Guareschi Cazzullo.

Con quella sua voce particolare, riconoscibilissima, quel suo modo di essere burbero e dolce, Cazzullo era unico. Anzi, “il Cazzullo”, come amava definirsi. Adorava l’ironia sottile e la battuta fulminante. Anche ultraottantenne non risparmiava giudizi e critiche, sempre motivate, ma lapidarie. Era un uomo, oltre che uno scienziato della psiche, generoso, irruento, coraggioso, energico, preparatissimo. Non da tutti amato, certo, ma come accade a coloro che fanno storia.
Un anno mi mostrò sconfortato una lettera della Società italiana di neurologia in cui gli veniva negata l’associazione onoraria. Una nota di un amico neurologo aggiungeva che ne era molto dispiaciuto, ma la votazione era andata così. “E’ una vita che pago la quota – commentò Cazzullo – alla soglia dei novant’anni e dopo tutto quello che ho fatto, ho semplicemente chiesto che mi riconoscessero come socio onorario. Pazienza”.

Che cosa aveva fatto di tanto sconvolgente Cazzullo? Ci aveva messo vent’anni per separare le due discipline: la neurologia dalla psichiatria. Prima esisteva solo la neuropsichiatria. Ma una volta laureatosi con Besta a Milano, recatosi, grazie a una borsa,  al Rockefeller Institute for Medical Research di New York, studiosi del calibro di R. Lorente de Nò e A. Ferraro, lo convinsero che era giunto il momento, anche per l’Italia, di far percorrere due differenti strade accademiche e scientifiche a due discipline così complesse e vaste, pur con evidenti punti di contatto e sovrapposizione, come la neurologia e la psichiatria.
La vita di Cazzullo è un film. A New York incontrò Don Luigi Sturzo, rifugiato, e Arturo Toscanini. Da entrambi venne ricevuto per la raccolta fondi che il giovane Cazzullo stava facendo per far avanzare la neuropsichiatria italiana. Sempre a New York, con i fondi raccolti acquistò uno dei primi elettroencefalografi da inviare al Besta di Milano (chissà se in qualche scantinato c’è ancora: sarebbe ottimo per una mostra rievocativa). Ci aveva messo un mese, in nave, per raggiungere la Grande Mela. E trovò ospitalità in una trattoria con annessa camera gestita da italiani a Little Italy.

E’ già un film la vita di Cazzullo. Mi tornano alla mente le immagini che sapeva evocare con i suoi appassionati racconti. Lui all’Ospedale militare di Milano che riesce a salvare un buon numero di ricoverati dalla deportazione in campo di concentramento. Cazzullo aveva fatto ragioneria, prima di iscriversi a medicina, e aveva studiato, bene, il tedesco. Questo gli permise di cogliere una telefonata in cui il comandante tedesco diceva ai suoi che l’indomani avrebbero fatto un rastrellamento all’Ospedale militare. Cazzullo si precipitò all’ospedale e convinse ad andarsene quanti più potè (non tutti avevano ancora la consapevoleza di cosa volesse dire “campo di concentramento”, alcuni pensavano di poter andare a lavorare in Germania e quindi stare meglio).

“Il giorno dopo – mi raccontò Cazzullo – arrivò il comandante con le camionette. Entrò nei reparti e li vide semivuoti. Vestito di tutto punto, con la divisa, il berretto con la visiera e gli stivali, si voltò verso di me e mi lanciò uno sguardo che mi gelò il sangue.
Carlo sei morto , ho pensato. Invece, si voltò verso i suoi e urlando Schnell Schnell!, se ne andarono”.
Cazzullo tra l’altro aveva militato nelle fila partigiane di Giustizia e Libertà: da quei ricordi, a cui teneva molto, ricavò un volumetto pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2005 (
Un medico per la libertà ).
Grandissimo il suo amore per la famiglia e gli adorati nipoti. Centinaia le storie relative ai suoi pazienti, anche famosi, che ha seguito e curato nell’arco di una vita. Anche negli ultimi anni, finché ha potuto. Molti di loro si sono sentiti e si sentiranno orfani. Ad un paziente che gli avevo inviato, disse: “Lei non ha bisogno di farmaci. Esca di più e vada a ballare”. Lo congedò con una terapeutica pacca sulle spalle. E il paziente seguì, con successo, il suggerimento del professore. Dopo una vita trascorsa con pazienti psichiatrici, sapeva ben distinguere tra il paziente bisognoso di psicofarmaci e quello che si nega all’esistenza. Ma tutti – più volte ne sono stato testimone – lo potevano raggiungere  con una telefonata, a cui cercava sempre di rispondere e rassicurare.  Lo stesso Cazzullo, del resto, vedovo della prima giovane moglie e giovane padre, aveva ben conosciuto la notte oscura dell’anima. “Ne venni fuori – raccontava – quando gli americani mi invitarono a tenere un ciclo di lezioni negli Stati Uniti. Sulla depressione”.

E’ stato un maestro. Ha aperto molti fronti in psichiatria biologica e psicofarmacologia. Era nato scienziato e ricercatore, ed era diventato pure un ottimo clinico e un grande docente. Molto saggio. Mi risuonano nella mente alcune sue sollecitazioni. Tipo: “Perché non mi hai chiamato ieri?”. “Professore, pensavo di disturbarla”. “Non pensare, verifica!” 


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Pubblicato il 05 Maggio 2010
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