Gino Strada: «Abbiamo riaperto l’ospedale di Lashkargah»

Settanta posti letto che, per più di cento giorni, sono rimasti vuoti in una zona in cui la chirurgia di guerra è necessaria, fondamentale. Su PeaceReporter le tappe che hanno portato alla riapertura della struttura, dopo una lunga trattativa che ha visto come protagonista la politica afgana, le pressioni militari, la caparbietà di Emergency

Partiamo dalla notizia.
La novità è che oggi, giovedì, riapre l’ospedale di Lashkargah.
Abbiamo avuto un incontro con il governatore della provincia e credo che tutti abbiano ormai compreso la montatura che ha portato alla chiusura dell’ospedale. Così si può chiudere un libro e aprirne uno diverso. Noi abbiamo fatto presente quali sono le nostre condizioni: il libero accesso per tutti i feriti alla struttura e che l’ospedale deve essere rispettato da tutti. Così come deve essere per sua natura: un luogo neutrale dove non si esercita violenza. Abbiamo ribadito che non esiste l’idea che il nostro ospedale sia sotto il controllo di forze militari e che l’ingresso non debba essere filtrato da nessuno. Su queste cose il governatore ha detto che si trova d’accordo. Quindi possiamo ricominciare.

Quali sono le tappe che sono seguite fra Emergency e le autorità dalla liberazione dei tre operatori sequestrati e poi rilasciati?
La trattativa è andata avanti nel senso che il governatore aveva posto una serie di condizioni, per noi inaccettabili: che la sicurezza fosse garantita da militari afgani, e avere l’ospedale circondato sarebbe stato non solo un filtro, ma ci avrebbe trasformati in un bersaglio perché le persone armate è normale che pensino di avere dei nemici ed è normale che rappresentino esse stesse un bersaglio. Queste condizioni le ha ritirate: quando ha parlato con i nostri rappresentanti dicendo che non metteva condizioni abbiamo detto: va bene allora possiamo riprendere a lavorare.

Ma cosa è accaduto negli ultimi giorni? Eravamo rimasti al comunicato di Emergency in cui si parlava di una contrapposizione netta fra il potere centrale, favorevole alla riapertura, e quello locale che poneva, appunto, degli ostacoli, delle condizioni.
C’era conflittualità. D’altra parte la cosa non deve sorprendere. Quando un Paese è sotto occupazione militare ci sono gli occupanti e gli occupati. Gli afgani sono gli occupati. Quindi non sorprende che nemmeno il presidente dell’Afghanistan abbia il potere di controllare il governatore di questa provincia. In un colloquio che abbiamo avuto nelle scorse ore con il consigliere della Sicurezza nazionale a Kabul ci è stato detto molto chiaramente: il governo afgano non ha potere e non controlla molte regioni del Paese, dove non conta e non decide niente. Lì decidono i militari della Coalizione.

Cosa è successo, allora, perché cambiasse idea e togliesse le condizioni che aveva posto nei giorni scorsi?
Sono aumentate molto le pressioni da molte parti. La gente si ritrova senza un ospedale chirurgico in una regione dell’Afghanistan in cui c’è molto bisogno di chirurgia di guerra. Quindi la società afgana, il Consiglio degli anziani, i loro rappresentanti di villaggio, hanno iniziato a premere per creare le occasioni perché l’ospedale potesse riaprire. Domani abbiamo una riunione proprio con il Consiglio degli anziani e avremo una riconferma di ciò.

Ricordiamo un intervento a Bruxelles, in cui veniva menzionata l’Onu e anche la disponibilità di alcuni europarlamentari. Quando parli di pressioni ti riferisci a questi soggetti?
La forza determinante è stata la società civile afgana, con la sua struttura, le sue rappresentanze, il Consiglio degli anziani, il rappresentante del villaggio. Come è successo nel 2007, insomma. Con delegazioni e delegazioni che venivano, allora, a Kabul dall’Helmand a chiedere e far pressione. La stessa cosa è successa qui. In queste settimane abbiamo continuato a ricevere lettere e petizioni firmate dai leader di questa zona, molto belle, con la firma che era l’impronta digitale del pollice o dell’indice e con una foto appiccicata, perché chi firmava fosse riconoscibile. Abbiamo ricevuto molti messaggi che andavano in questa direzione e io credo che questa sia stata la cosa determinante. Poi sono convinto che anche l’Onu abbia fatto i propri passi, per esempio con gli inglesi. Ieri abbiamo incontrato l’ambasciatore di Londra che ci diceva che non avevano nulla in contrario alla riapertura. Di tutte le cose dette, poi, bisognerà tenere conto fino a un certo punto; quello che conta è la quotidianità dei rapporti.

Ricordiamo tutti come fu ordita la trappola contro Emergency. Come vi state attrezzando perché non possa più accadere la stessa dinamica?
Ci stiamo ragionando, non abbiamo la bacchetta magica, ci sono piccole cose da aggiustare: un ospedale, qui come in Italia, è uno dei luoghi più vulnerabili, perché si dà per scontato che venga rispettato. Quindi in genere i controlli sono modesti, se pensiamo ai controlli sulla sicurezza per esempio che si fanno in aeroporto. Non vogliamo trasformare un ospedale in una fortezza. Si tratta di avere un po’ più di accortezza e controllare meglio alcune questioni, per esempio l’accesso.

Una riapertura dell’ospedale in perfetto stile Emergency. Possiamo dire che avete vinto?
Mah.. vinto… non la prendo come una battaglia di Emergency contro chicchessia. Siamo contenti perché la gente di qua entro la fine della settimana riuscirà ad avere l’unico ospedale degno di avere questo nome. Ci saranno meno morti e meno feriti abbandonati. Questa è la vittoria vera.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 04 Agosto 2010
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