“Ecco come è nata la rete che difende l’università”
Alessandro Ferretti, dell'Università di Torino, racconta la protesta dei ricercatori. Partita da Cagliari passando per Roma, Napoli e anche Varese
La prima a dire di no è stata Cagliari. Dopo un mese si è creato un altro "nodo" a Napoli, poi a Torino. È nata così, con un passa parola di mail, facebook e pagine on line, la "Rete 29 aprile". Una mobilitazione dei ricercatori senza precedenti che in poco tempo ha coinvolto quasi tutti gli atenei italiani, Insubria compresa. Ne ha parlato oggi, durante l’incontro nell’aula magna di via Dunant, Alessandro Ferretti, ricercatore del dipartimento di fisica sperimentale dell’Università di Torino e una delle anime di questo movimento. «L’università sta andando alla deriva – ha detto Ferretti – e molti di noi si sono rifiutati di avallare con il proprio lavoro la sua rovina. Quando il disegno di legge Gelmini uscì fu accolto da un coro di approvazione. Era quello che avrebbe rivoluzionato il carrozzone università. I primi commenti contro corrente furono quelli della facoltà di scienze di Cagliari. Poi la rete è cresciuta. A Napoli più di cento ricercatori si sono rifiutati di fare lezione rinviando così l’inizio del secondo semestre. Poi è stata coinvolta Torino e si è aperto un grande dibattito culminato nell’assemblea nazionale del 29 aprile. C’erano centinaia di ricercatori che hanno creato la rete, dal basso, con una testa autonoma».
Portare all’attenzione pubblica i problemi e i sacrifici di tanti giovani non è stato semplice: «Abbiamo ricevuto pressioni di ogni tipo e anche qualche minaccia per obbligarci sciogliere il gruppo – ha proseguito Ferretti -. "State rischiando la vostra carriera" ci diceva qualche professore più alto in grado ma la protesta questa volta non si è arenata, non si è sciolta». Salvo alcune proteste eclatanti, come le sedute d’esame in piazza, la mobilitazione ha preso una direzione univoca, quella dell’indisponibilità. I ricercatori hanno deciso infatti di attenersi agli obblighi previsti dai propri contratti abbandonando quindi la didattica che, in teoria, non gli competerebbe: «Le indisponibilità hanno tenuto in tutti gli atenei. Se ne è accorto anche il Governo che ha poi attaccato i rettori, che finora si erano sempre schierati dalla parte della riforma. Insomma quella che avevano davanti era ed è un’università viva e attiva e soprattutto pronta a difendersi. Penso che molti di noi non vogliano diventare professori associati in un’università che fatica a pagare le bollette. Ora la situazione è a una svolta cruciale: il testo è stato rinviato, poi anticipato, poi emendato. Non c’era mai stato un movimento così in precedenza. È arrivato il momento di aprire un dibattito vero su cosa vogliamo dal sistema universitario. Non di certo che diventi una scuola di formazione modellata sulle esigenze dei privati»
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