Scopelliti, un giudice dimenticato: “ma era come Falcone e Borsellino”

Aldo Pecora, fondatore di Ammazzateci Tutti e Rosanna, figlia del magistrato ucciso nel 1991, hanno presentato da Boragno il libro "Primo Sangue" che ricostruisce il delitto e tratteggia la figura paterna. Ai boss: "Pentitevi e collaborate"

Pubblico numeroso e tanti ragazzi per la "tappa" bustese di Aldo Pecora e Rosanna Scopelliti per promuovere il libro "Primo Sangue" (BUR-Rizzoli), dedicato alla figura del giudice Antonino Scopelliti, assassinato il 9 agosto 1991 a seguito di uno scellarato patto fra la mafia dei corleonesi e la ‘ndrangheta del Reggino. Omicidio impunito: mai individuati gli esecutori, assolti i presunti mandanti. Il giovane leader di Ammazzateci Tutti (25 anni da poco compiuti) e la non ancora 27enne figlia del magistrato ucciso, ospiti alla Galleria Boragno, hanno fatto il pienone: poco prima avevano avuto modo di incontrare i ragazzi degli oratori bustesi. Al centro del loro intervento non tanto e non solo la presentazione di un libro, ma l’urgenza di sottrarre all’oblio la figura di un magistrato e padre di famiglia, sacrificatosi per la legalità. Accompagnati con delicatezza e sensibilità da Chiara Milani, vicedirettore di Rete55, e introdotti da Massimo Brugnone, fondatore a Busto della prima sezione "extracalabrese" di Ammazzateci Tutti (che ha ricordato come qui penda ancora inevasa la proposta di intitolare una via a Scopelliti), Aldo e Rosanna hanno quindi tratteggiato la figura del magistrato, per le cui mani erano passate molti dei più importanti processi d’Italia, e la presa di coscienza da cui è nato il libro.

Scopelliti sapeva di dover morire: aveva rifiutato un’offerta da cinque miliardi di lire per "ammorbidire" in Cassazione il maxiprocesso contro Cosa Nostra. Il giorno stesso dell’omicidio, avvenuto a Piale di Villa San Giovanni mentre era in ferie (ma continuava a lavorare portandosi a casa le carte), il procuratore generale della Cassazione aveva fatto sgomberare la spiaggia su cui si trovava, credendo di ravvisare una bomba in un innocente sacchetto ritrovato dai bagnanti. Si era sbagliato sul metodo, ma solo di qualche ora quanto al tempo. «I mafiosi sono vigliacchi: in moto, con casco integrale, e da dietro lo hanno colpito» racconta Aldo, che quando Scopelliti morì aveva appena cinque anni, ma ricorda ancora.
L’urgenza di reagire venne ad Aldo Pecora e a vari altri giovanissimi di Locri nel 2005, di fronte all‘assassinio di Francesco Fortugno, il vicepresidente del consiglio regionale, ammazzato mentre si votava per le primarie dell’Unione. «Il nostro è un percorso di memoria e riscatto civile partito dalla sensazione che provavamo io e altri, poco più che maggiorenni. Sentire le sirene dell’ambulanza pensando solo, ne è morto un altro. In una terra "caraterizzata", come da mare, sole e montagne, dalla ‘ndrangheta. Una terra in cui tanti non possono neanche portare un fiore sulla tomba dei cari a causa della lupara bianca, contro chi ha sgarrato: il morto è bruciato, fatto ai pezzi, dato ai maiali, e con la sua assenza definitiva paga anche la famiglia. Poi c’è l’umiliazione quotidiana del pizzo, il malavitoso viene ogni tanto, quando vuole lui. Siccome è un vile, non ha nemmeno il coraggio di manifestarsi come mafioso: dice, si sposa mio cugino, dobbiamo fare la lista nozze, ora non ho i soldi… e via, in quel modo, si è preso qualcosa di tuo e ti ha detto: sono qui». E "faccio quello che voglio", viene da dire parafrasando amaramente un attore comico calabrese. «Pochi, denunciano, non si allineano, divengono testimoni di giustizia. Poi queste persone vengono magari traserite in parti lontane d’Italia, costrette a cambiare persino nome; ma la gente deve rimanere lì, così è chiaro che la gente dice non denuncerà per non essere costretta ad andarsene». Il prezzo più caro però resta quello pagato da tanti come Rosanna, che Aldo ha conosciuto a Roma cinque anni or sono, un incontro quasi casuale ad una commemorazione del giudice Caponnetto – che per la figlia di Scopelliti era stato un po’ un nonno putativo, fra i pochissimi a restare vicino alla bambina e alla madre. Rosanna scoprì che Aldo la storia di suo padre la conosceva benissimo. Nell’estate del 2007 la proposta, pressochè sottovoce, di un libro da realizzare insieme: Primo Sangue.

Sì, perchè quello effuso da Scopelliti era davvero il primo sangue delle grandi stragi di mafia con cui Totò Riina e compari recapitavano i loro "messaggi" a Roma. Eppure Scopelliti «è stato dimenticato». Tutti si ricordano di Falcone e Borsellino, pochi di lui: forse, ammette Aldo, la Sicilia era giornalisticamente più interessante della Calabria. «Scopelliti non era un pm, era il pm della Cassazione. Eppure la sua storia sembava destinata a non essere raccontata mai. Più volte avevamo inviatto i giornalisti ad occuparsene, invano: così l’abbiamo raccontata noi. Sul suo caso non c’è stato il "fiato sul collo". Guardate invece per Avetrana, a Cogne, a Garlasco».
«È stato difficilissimo riprendere le carte, raccontare la guerra di mafia a Reggio, mille morti in cinque anni (1986-1991), gli attentati coi bazooka, i boss che saltano nelle loro auto». Nella terra del dolore, dove i morti fanno paura ai vivi, «la gente deve conoscere questa storia, e affezionarsi a Scopelliti, lui che non si è mai piegato: merita di stare alla pari con Falcone e Borsellino».

«L’intera stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia andrebbe riscritta» dice Aldo Pecora: «Scopelliti è stato l’unico magistrato di Cassazione ucciso dalla criminalità organizzata. Nel libro, io racconto il giudice, lei il padre. In fondo c’è una lunga conversazione con i magistrati Nicola Gratteri e Salvatore Boemi», vere autorità in fatto di ‘ndrangheta e dintorni. «Questo libro è già nelle case dei malavitosi: li sfido a non commuoversi alle parole di Rosanna su suo padre. La speranza è che anche i nuovi boss possano compiere l’ultimo atto di dignità che gli resta, quello di pentirsi, collaborare, consegnare la verità storica e processuale a Rosanna e alla sua famiglia. Non dovrebbe essere eroico fare il magistrato, ma un mestiere normale. Importante capire ciò che fanno i giudici e, bellissimo il lavoro di Massimo Brugnone che porta i ragazzi in tribunale, dove è stato attaccato dalla moglie di un imputato». Proprio in un processo per fatti dì ‘ndrangheta, che avvengono qui, non a Locri.
Rosanna Scopelliti per vent’anni ha fatto, tragicamente, la più calabrese delle cose: tacere. La sua stessa esistenza in vita era avvolta dalla riservatezza. Dopo che la figlia di un collega di Sala Consiliana era stata crivellata dai proiettili destinati al padre, papà Antonino per spostarla dall’auto in casa e viceversa la nascondeva in una valigia. «Papà aveva paura per noi, non raccontavo nemmeno che era figlia sua. Lui si sforzava di farmi vivere tutto come fosse un gioco». Dopo l’assassinio, «per ore si parlò di incidente stradale prima di accorgersi dei proiettili in testa. Il funerale fu fatto in ventiquattr’ore, la scena del crimine fu riaperta in poche ore» racconta Rosanna. «Papà è stato ucciso perchè non ha piegato la testa a una richiesta: non si sarebbe mai sognato di infangare il lavoro dei suoi colleghi; non era di quelli che facevano cancellare una sentenza per vizio di forma, non voleva essere il più bravo, ma il più giusto. Lui viveva per la giustizia; da morto, non l’ha trovata. Ma se siamo qui a parlarne, è perchè qualcosa è cambiato. In Calabria, come qui in Lombardia, grazie a dei ragazzi». Rosanna e la mamma sono rimaste sole, a parte l’appoggio affettuoso di Antonino Caponnetto. Un uomo ammazzato due volte, col piombo prima, e l’oblio poi, il giudice Scopelliti: e non il solo, così per i Chinnici, i Livatino, i Terranova, i Saetta. «La nostra solitudine era legata alla sensazione di vivere una profonda ingiustizia, paradossale per la famiglia di un magistrato. La rabbia, lo sconforto: noi soli contro la cattiveria e la violenza ‘ndranghetista, prima; l’indifferenza, l’amarezza poi nello stringere tante mani e sentire belle parole che non si traducono in fatti, poi. Dopo vent’anni in Cassazione non c’è un’aula dedicata, e se oggi si parla di mio padre è perchè i ragazzi di Ammazzateci Tutti mi hanno presaper mano e aiutato a raccontare. La storia è passata in sordina perchè molti giornalisti non hanno voluto prenderla in mano: Aldo Pecora ha voluto farlo e lo ringrazio. Questa solidarietà dalla Calabria alla Lombardia mi ha aperto e ha permesso ad Aldo di farmi raccontare cose privatissime. Ho tenuto per me per anni i ricordi di papà, ora li condivido: perchè mi sento meno sola. E posso raccontare l’uomo tra le cui braccia per sette anni mi sono addormentata». 

C’è paura nel combattere contro la ‘ndrangheta? «Più per chi mi sta intorno che per me» dice Aldo Pecora. «Sono peggio le critiche: da un sindaco mi sono sentito dire che siamo zavorra e rendiamo un cattivo servizio alla Calabria». Minacce? «Ho ricevuto “segnalazioni”, diciamo così. Ma la denuncia la faccio in commissariato, non sui giornali, altrimenti dò spazio alla mafia, e la gente pensa che non conviene lottare. La mafia va raccontata in modo diverso, se avessi voluto vendere due milioni di copie potevo rendere pubbliche le minacce. Mi fa più paura il silenzio: si comincia a morire quando si è soli».

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Pubblicato il 23 Gennaio 2011
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