A volte ci si imbatte in uno scrittore
Il Premio Chiara Inediti è andato a "Belle speranze" (Pietro Macchione Editore) di Riccardo Ielmini. Una raccolta di cinque racconti che in realtà si legge come un romanzo
Nella miriade di parole che vengono scritte, impaginate e troppo spesso pubblicate – perlopiù parole inutili – a volte capita di imbattersi in uno scrittore. O perlomeno, in qualcuno che questa stoffa ce l’ha. E il Premio Chiara Inediti, da quando è nato, ha l’irragionevole speranza, statisticamente parlando, di imbattersi in uno scrittore. In mezzo a un rumore di sottofondo, rappresentato dalla stragrande maggioranza dei manoscritti che arrivano alla segreteria, ogni tanto spunta una voce sola. Nitida, riconoscibile.
Quasi tutti gli aspiranti scrittori girano intorno al proprio ombelico e alla fine ci sprofondano, sguazzando in asfittiche visioni, inutili per la comprensione del mondo.
Anche Riccardo Ielmini, vincitore del Premio Chiara Inediti, è cascato nel suo ombelico. Ma ci è rimasto giusto il tempo di capire che da lì non ci si cavava nulla. Con un energico colpo di reni si è girato su se stesso rivolgendo lo sguardo verso il mondo per trovare un posto alle sue “Belle speranze” (Pietro Macchione Editore).
Anche Riccardo Ielmini, vincitore del Premio Chiara Inediti, è cascato nel suo ombelico. Ma ci è rimasto giusto il tempo di capire che da lì non ci si cavava nulla. Con un energico colpo di reni si è girato su se stesso rivolgendo lo sguardo verso il mondo per trovare un posto alle sue “Belle speranze” (Pietro Macchione Editore).
Cinque racconti a struttura circolare (questa è una furbata, e non è l’unica) con al centro una generazione (i ventenni degli anni Ottanta) che ha pagato il prezzo più alto per una giovinezza rimasta tale, cristallizzata dalle sue maledizioni, eroina e aids. Persone, appunto, di belle speranze, che hanno dovuto abdicare all’esistenza troppo presto.
«Li vedevo – dice lo scrittore – girare nel paese. Erano belli, pieni di avvenire, per noi più piccoli, dei miti. Chissà cosa sarebbero diventati. Chissà cosa avrebbero fatto».
In questo romanzo – perché è tale, nonostante Ielmini lo abbia travestito da raccolta di racconti – ci sono alcuni feticci del nostro tempo: il calcio di periferia (ricordate “Fùtbol” di Osvaldo Soriano?), il prete e la parrocchia, il militare, l’agente segreto che utilizza il nome dell’autore (questa è la seconda furbata), il clochard.
E poi c’è la bella scrittura. Ielmini usa le parole con responsabilità. Mai a caso. Mai per spararsi le pose. Fuori posto c’è poco o nulla. Solo quattro miseri refusi (roba lieve) nel manoscritto originale. Allenarsi da poeta, dunque, gli è servito molto. Figlio di uno «stanco democristiano», con i suoi 38 anni, Riccardo Ielmini è qualcosa di più di una bella speranza.
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