Ventenni, infermiere, assistono i malati terminali

Selene e Irene sono due infermiere professionali dell'hospice di Varese. Fresche di laurea, sono arrivate, 18 mesi fa, all'hospice del Circolo dove si cura la persona e non la malattia

Con questa intervista inizia un viaggio nelle corsie dell’ospedale di Varese. Incontri con chi vive quotidianamente l’assistenza ai malati in un momento delicato di cambiamento. Storie di medici, infermieri e tecnici impegnati a svolgere un lavoro delicato



Irene e Selene, infermiere all'hospice di VareseIrene Banfi e Selene
 Andreotti sono due ventenni. Con una laurea appena conquistata, sono state assunte all’hospice dell’ospedale di Varese. Un impatto con il mondo del lavoro e della professione che non poteva essere più impegnativo: « È vero – ricorda Irene – quando ce lo hanno proposto non c’eraaltra scelta. Ci siamo buttate e devo dire che è stata un’esperienza molto positiva. Eravamo state chiamate a creare dal nulla un reparto. Ed è per questo che lo sentiamo un po’ nostro…».

Fresche di diploma universitario, le due infermiere si sono trovate di fronte un mondo quasi sconosciuto: « All’università ti insegnano poco delle cure palliative – spiega Selene –  Ti preparano a curare in vista di una guarigione. Invece le cure palliative mirano a prendersi cura della persona, della qualità della sua vita, della sua serenità…».

Irene e Selene erano in corsia il giorno in cui arrivò il primo paziente dell’hospice: « Ho fatto la prima notte – ricorda Irene – ero un po’ tesa ma sapevo di essere in un ambiente protetto. Stavamo costruendo il reparto per cui c’era e c’è ancora molta collaborazione, grande aiuto dai più "anziani". Certo che abbiamo dovuto subito capire il lato professionale della nostra attività: ogni paziente, all’inizio, era un amico e il distacco era molto doloroso. Abbiamo dovuto ben presto prendere le distanze…»

le due infermiere al lavoro all'hospice di Varese«Ci facevamo prendere troppo- aggiunge Selene – si sviluppava una grande empatia ma poi non riuscivi a ritrovare il tuo equilibrio. Abbiamo capito che non potevamo continuare così. Oggi c’è più distacco anche se è impossibile non lasciarsi coinvolgere: ogni paziente ti ricorda un parente, un amico. Il nostro lato professionale ci aiuta ad affrontare tutto, nonostante l’emotività. A volte, però, sentiamo la nostra inadeguatezza e qui entra in gioco la squadra, intervengono i medici che mediano le situazioni. La consapevolezza di far parte di un gruppo ci dà serenità».

Nonostante lo scudo della professionalità, comunque, questo è un reparto dove prevale il lato umano: « Passiamo in reparto tantissimo tempo – spiega Irene – e instauriamo con i pazienti un rapporto quotidiano, direi familiare. Alla fine, imparano a conoscere la nostra espressione, a leggerci negli occhi. Non riesci a mentir loro….».
Convivere con la mancanza di speranza è un’esperienza che obbliga a interrogarti: « Quando esco con i miei amici – racconta Irene – tutti ragazzi giovani come me, spesso mi chiedono come faccia. Mi rendo conto che io sono diversa da loro sul rapporto con l’idea della morte. Loro sono spaventati, qui ti costringono a interrogarti. Lo si fa come approccio formativo, ma lo si fa ogni volta che vivi un distacco. Ogni volta è pesante, ogni volta vedi lo strazio di chi rimane. Io so che voglio affrontare la morte in piena lucidità, per non dovermi pentire di aver tralasciato qualcosa, di non aver salutato qualcuno…».

Il kit farmaceutico in dotazione ai pazienti assistiti a domiciloNonostante tutto, però, Irene e Selene non rimpiangono nulla e rifarebbero tutte le scelte. Tale è il loro entusiasmo chehanno vinto il primo premio Ipasvi per un sistema di aiuto alle famiglie ideato per l’assistenza domiciliare: « La nostra assistenza ai malati domiciliari non copre la notte – racconta Selene – c’è solo il telefono a cui si rivolgono i parenti. Capitava spessissimo che queste persone andassero in tilt: è una reazione normale perché perdi il controllo davanti alla sofferenza. Così non riuscivano a capire quale farmaco somministrare, in quali dosi. I nostri sono farmaci un po’ particolari e un errore può avere qualche ripercussione. Abbiamo realizzato un foglio di istruzioni con le foto delle scatole dei farmaci, le dosi, i sintomi che vengono curati. In questo modo, i “care giver” si preparano e hanno tutti gli strumenti per gestire l’emotività. I risultati che abbiamo ottenuto sono veramente ottimi».

Per le due ragazze, il lavoro dell’infermiere non è un capriccio o una scelta di ripiego: « Mia madre voleva che facessi il medico – racconta Irene –  Ho sostenuto entrambi i test e li ho passati entrambi. Ma volevo fare l’infermiera a tutti i costi e alla fine i miei genitori hanno capito».

Una professione d’oro, anche se oggi non luccica poi così tanto: « Siamo assunte con un contratto che terminerà nel 2013. Poi vedremo – commenta Selene – ci sarà un concorso, un altro contratto. Va bene tutto. Solo non voglio finire, tra venti o trent’anni, a fare un lavoro che non mi piace. Spero che mi rimanga sempre l’entusiasmo e l’amore che ho per ciò che faccio. Mi auguro che la routine non mi rovini…»

La sanità sta cambiando, l’ospedale non sarà più la soluzione scontata per due infermiere professionali come Irene e Selene. Ma il futuro, per ora, non le preoccupa: ci sarà sempre chi ha bisogno di aiuto, di una cura e di un gesto gentile per sopportare la malattia. 




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Pubblicato il 24 Ottobre 2011
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