“Non esiste un’unica forma di dislessia”

Il 5% dei bambini scolarizzati soffre di disturbi dell'apprendimento. La scienza non ha ancora fatto totale chiarezza. Cristiano Termine, neuropsichiatra infantile, fa il punto della situazione

Difficoltà dell'apprendimentoIl 5 % dei bambini in età scolare soffre di dislessia. Lentamente la scuola si sta attrezzando, grazie anche alle iniziative scientifiche e alla Consensus Conference che ha riunito le principali associazioni che si occupano del problema, sotto l’egida del Ministero della Sanità.
Il disagio di chi è affetto da questo disturbo ha indotto anche il Ministero dell’Istruzione ad adottare linee guida ampiamente condivise per accompagnare il percorso formativo in classe e a casa.

Cosa sia e come colpisca la dislessia, però, è ancora presto per dirlo: è stato stabilito quale atteggiamento possa essere ricompreso tra i disturbi della DE ( dislessia evolutiva) ma quali e quante implicazioni ulteriori ci siano è tutt’ora allo studio.

Uno dei maggiori esperti di DE è il dottor Cristiano Termine che lavora nel reparto di neuropsichiatria infantile all’ospedale Del Ponte di Varese. Ha recentemente pubblicato un articolo che riassume lo stato dell’arte, facendo un po’ di chiarezza sulle diverse posizioni riconosciute dalla stessa Consensus Conference.

«Questo lavoro intende affrontare una delle questioni discusse nell’ambito della Consensus Conference sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento, ma ancora aperta, ovvero la comprensione delle diverse espressioni cliniche della dislessia evolutiva. Si tratta, infatti, di un disturbo eterogeneo all’interno del quale si possono isolare diversi “sottotipi” riconducibili a meccanismi patogenetici diversi. Lo studio neuropsicologico di soggetti dislessici può mettere in evidenza deficit in diversi domini cognitivi (abilità fonologiche, processamento visivo e uditivo, attenzione, automatizzazione), i quali possono presentarsi in modo isolato o variamente associati tra di loro.Verranno esposte le più recenti acquisizioni scientifiche in questo ambito, con particolare riferimento alle implicazioni cliniche.
La DE è un disturbo specifico dell’apprendimento caratterizzato da significative difficoltà nella lettura, che risulta significativamente lenta e/o inaccurata, a fronte di un livello intellettivo nella norma, in assenza di deficit sensoriali e nonostante adeguate opportunità scolastiche (AID, 2009). In molti casi, inoltre, la DE si presenta in comorbilità con altri disturbi, quali ad esempio il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività, difficoltà di adattamento sociale, disturbi d’ansia e depressione, disturbi che devono essere sempre valutati durante la fase diagnostica, per le importanti implicazioni cliniche e riabilitative.
Teoria fonologica
La Teoria Fonologica postula che i soggetti con DE abbiano un deficit primario e specifico nella codifica (cioè rappresentazione), nel recupero, nell’utilizzo e nella consapevolezza esplicita dell’informazione contenuta nel lessico fonologico. L’acquisizione della lettura è strettamente collegata allo sviluppo della consapevolezza fonologica e in particolare alla capacità di stabilire in modo efficiente un legame stabile tra fonemi e grafemi.
Teoria del deficit di processa mento uditivo
Questa seconda teoria è stata costruita in seguito all’osservazione che i soggetti dislessici presentano risposte comportamentali e neurofisiologiche anomale a vari stimoli uditivi: in particolare, difficoltà in compiti di tipo psicofisico di percezione e categorizzazione dei suoni linguistici, con stimoli sonori brevi o caratterizzati da rapidi cambiamenti di ampiezza e frequenza. Alcuni autori, tuttavia, sottolineano che solo una minoranza dei dislessici presenta risultati inferiori alla norma nei compiti di processamento uditivo
Teoria del deficit di processamento visivo
Alcuni autori ritengono che all’origine della DE vi sia un disturbo specifico dell’elaborazione visiva e, più in dettaglio, un difetto nella funzione inibitoria del sistema magnocellulare – che permette la localizzazione visiva e la rilevazione automatica delle variazioni dinamiche delle informazioni visive, mediante i movimenti saccadici- con conseguente abnorme durata della traccia visiva, che creerebbe così una sorta di affollamento di immagini (crowding) nel momento della lettura di un testo
Teoria del deficit attentivo
L’ipotesi alla base della teoria del deficit attentivo è che, in molti casi, il disturbo di decodifica derivi da deficit visivi high level passando, quindi, da una spiegazione prevalentemente sensoriale-percettiva, ad una di tipo cognitivo attenzionale. Studi longitudinali mostrano che le abilità di attenzione selettiva visuo-spaziali, in età prescolare, costituiscono un predittore valido dell’apprendimento della lingua scritta: si evidenzia una prestazione di lettura peggiore nei bambini che nel compito di ricerca visiva mostrano un aumento significativo nei tempi di risposta e nel numero di errori, all’aumentare del numero di distrattori (Plaza & Cohen, 2006).
Teoria del deficit cerebellare
Questa teoria è nata in seguito all’osservazione che alcuni dislessici mostrano difficoltà nell’apprendimento procedurale, nelle abilità motorie, nell’equilibrio (Fawcett & Nicolson, 1996) e nella stima del tempo (Nicolson, Fawcett, & Dean, 1995), tutte abilità controllate dal cervelletto. Gli autori che sostengono questa teoria hanno ipotizzato che una disfunzione cerebellare avrebbe implicazioni dirette sul processo di lettura in quanto, a causa di un deficit nel controllo motorio dell’articolazione dei suoni ne comprometterebbe le rappresentazioni fonologiche, e allo stesso tempo, a causa del difetto di automatizzazione, renderebbe lento il processo di conversione grafema-fonema (Nicolson et al., 2001).

Ogni teoria è facilmente sostenibile nel caso di soggetti dislessici che presentano un singolo deficit cognitivo, mentre non tutte possono spiegare in modo convincente perché alcuni soggetti dislessici presentano deficit cognitivi in più di un dominio. Esistono due modelli teorici che contemplano una causa comune alla base dei deficit cognitivi, singoli o multipli, riscontrabili nei soggetti con DE: la teoria magnocellulare (Stein, 2001) e il modello neurobiologico di Ramus (Ramus, 2004).
La Teoria Magnocellulare ipotizza che le alterazioni a livello del sistema magnocellulare  risulterebbero generalizzate a più modalità sensoriali (visiva, uditiva, tattile) e strettamente legate al funzionamento del sistema cerebellare, che garantisce una progressiva automatizzazione e un efficiente timing tra le diverse operazioni sequenziali di tipo visuo-attentivo e linguistico-fonologico, implicate nel compito di lettura (Stein & Walsh, 1997). Questa teoria ipotizza, quindi, un’unica causa biologica cross-modale alla base delle manifestazioni visive, uditive, tattili, motorie e fonologiche osservabili nei soggetti dislessici.
Il Modello Neurobiologico di Ramus
Ramus (2004) sostiene che la DE sia imputabile ad un disturbo della migrazione neuronale che interesserebbe primariamente la corteccia perisilviana, compromettendo elettivamente il processamento fonologico. In alcuni casi, le alterazioni della migrazione neuronale potrebbero essere più estese, ed interessare altre strutture encefaliche 
 Le diverse teorie esposte nella nostra rassegna sono supportate da solide evidenze cliniche e sperimentali. Se a conclusione di questa rassegna non è semplice rispondere alla domanda: “Una o più dislessie?” certo è chiaro che la dislessia evolutiva è un disturbo specifico dell’apprendimento assai eterogeneo dal punto di vista clinico e neuropsicologico. Nella pratica clinica è possibile identificare fenotipi cognitivi differenti. La valutazione diagnostica deve dunque essere allargata ai diversi domini cognitivi implicati nella lettura, un passaggio indispensabile per poter impostare un trattamento riabilitativo individualizzato sul profilo cognitivo del singolo bambino, e poterne cogliere le implicazioni didattiche e pedagogiche.  Al momento, le evidenze disponibili in merito all’efficacia dei singoli trattamenti riabilitativi e al confronto tra gli stessi (es. training metafonologico o sub-lessicale, trattamento tachistoscopio o potenziamento dei meccanismo attenzionali e percettivi) sono ancora troppo limitate per fornire indicazioni definitive al riguardo».

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Pubblicato il 04 Aprile 2012
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