L’Argentina vive ancora il dramma dell’identità

Karen Berestovoy, artista e fotografa argentina, racconta con le sue foto il periodo della dittatura militare e l'angoscia vissuta dalle Madres de Plaza de Mayo

Página/12” è un giornale argentino nato il 25 maggio 1987, quattro anni dopo la fine della dittatura, e viene pubblicato a Buenos Aires. Si chiama così perché quando è nato era costituito da 12 pagine. Vendeva 10mila copie al giorno. Da venticinque anni Karen Berestovoy, artista e fotografa che è nata in Argentina, ha vissuto in Cile ed è arrivata a Varese, alla fine degli anni ’90, dove porta avanti progetti di ricerca creativa come “Memoria viva Argentina” o “L’anima degli oggetti”, raccoglie in un diario tutte le immagini che “Página/12” pubblica dei desaparecidos, le “persone fatte scomparire” per motivi politici quando il suo paese era governato dal dittatore Jorge Rafael Videla, recentemente condannato dal tribunale federale di Buenos Aires a 50 anni di carcere.
Sono fotografie in bianco e nero, necrologi. Riportano le brevi frasi dei famigliari: «noi non dimentichiamo…noi non ci diamo pace». È una raccolta amara, che fa contrarre lo stomaco e produce una smorfia sul volto di chi la guarda.
Se si chiede a Karen quale sia il simbolo capace di raccontare ed esprimere al meglio quel periodo, lei mostra “Bocas”, immagini infernali di volti che gridano e si disperano, avvolti dalle fiamme. «Il problema – spiega l’artista – è che c’era uno Stato organizzato per istituire il terrore nella gente». Il terrore era esercitato in molti modi: carcere, tortura, rastrellamenti, violenze, lavaggi del cervello. Con il Proceso di reorganización nacional, i guerriglieri di sinistra che si opponevano alla dittatura venivano torturati, caricati su un aereo e gettati in mare aperto.
Quattrocento bambini, da allora, sono stati sottratti alle rispettive famiglie e allevati con la complicità dei militari in nuovi nuclei famigliari. È per questo che, ancora a distanza di 30 anni, l’Argentina vive il dramma della difficoltà a recuperare un’identità. «Identità – dice Karen – che da alcuni non vuole essere accettata, perché troppo pesanti furono le pressioni psicologiche esercitate dal regime della destra estrema. Al momento del colpo di stato non si capiva bene chi fosse il nemico di chi».
I genitori si raccomandavano con i loro figli di non uscire da soli la notte, e di chiamarli se le feste duravano fino a tardi: sarebbero andati a recuperarli, li avrebbero sorvegliati per le strade di Buenos Aires. È così che nacquero le Madres de Plaza de Mayo, era di giovedì. E da quel giorno, ogni settimana, le madri hanno sempre organizzato ronde in quella piazza chiedendo ai militari quale fine avessero fatto i loro figli desaparecidos. In risposta, i militari intimavano alle donne di circolare e di non restare ferme.
La resistenza alla cultura del terrore passava anche per l’arte. Vennero organizzati dei centri culturali “underground”. Il centro "Parakultural" è l’esempio più famoso, che si caratterizzava per l’offerta di teatro, musica dal vivo e arti plastiche non convenzionali nello stesso momento, riunendo così tante realtà diverse insieme.
Una data cruciale della storia dell’Argentina è il 5 luglio 2012, giorno della condanna di Videla. Ma la memoria, secondo Karen, non finirà dopo questa sentenza: «Ci sono ancora tante persone da condannare, quindi il percorso della giustizia non si è ancora concluso. Non si perde la forza».
Nel frattempo l’Argentina si muove: esiste un progetto nazionale per trasformare i circa 500 centri clandestini utilizzati per incarcerare e torturare le persone durante la dittatura in centri della memoria. Continuare a ricordare quello che è successo è fondamentale, e non si deve smettere di coinvolgere le strutture e l’arte, per evitare che la memoria si cristallizzi in un arido cerimoniale. Anche se alla fine, per fortuna, todo cambia.

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Pubblicato il 16 Luglio 2012
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