“Porteremo l’acqua dove non c’è dal giorno della Creazione”

L’ex parroco di Abbiate, Don Mauro, si trova ad Haiti insieme a Don Giuseppe Noli. Con la comunità del paese hanno costruito un acquedotto per un intero paese che “aprirà i rubinetti” ad agosto

«Porteremo l’acqua potabile dove non c’è mai stata, ma il lavoro non è affatto finito». 
Don Mauro Brescianini è a Marrouge (Haiti) da 5 anni, ma per 12 è stato parrocco ad Abbiate Guazzone, la frazione di Tradate. Ha raggiunto Don Giuseppe Noli, anche lui abbiatese, che si trova nel paese haitiano da più di dieci anni, una delle zone più povere del mondo. Don Mauro è tornato in questi giorni ad Abbiate, ripartirà mercoledì dopo i festeggiamenti in paese per la Madonna del Carmine. È tornato per rafforzare ulteriormente quel legame che unisce Abbiate a Marrouge: non sono solo i due preti che uniscono i due paesi, ma una schiera di volontari (che non fanno capo ad alcuna associazione) che contribuiscono non solo economicamente a far crescere Marrouge. Si tratta di muratori, falegnami, idraulici, tecnici, geometri, insegnanti, dottori, che a gruppi si recano ad Haiti da Don Mauro e Don Giuseppe per aiutare, ognuno con la propria professionalità. «È nata proprio in questa maniera l’idea che creare un acquedotto da zero – spiega Don Mauro -. Dopo tre anni di progettazione e costruzione ad agosto dovremmo "aprire i rubinetti" e portare l’acqua potabile dove non c’è dal giorno della Creazione».

Fino ad oggi come ha funzionato l’approvvigionamento idrico a Marrouge?
«È un paese di 30mila abitanti, molto esteso. Ogni famiglia ha delle persone, chi con la macchina chi ha piedi, che va a prendere l’acqua con le taniche o coi secchi. Un dispendio di energie e tempo notevole, perchè le fonti sono distanti chilometri. Da agosto non sarà più così, porteremo l’acqua in quattro punti della città, con delle pompe che saranno alimentate ad energia solare».

Come è nata l’idea?
«Il sistema di volontariato che è nato intorno e noi è una cosa cosa fantastica: le comunità dei paesi dove abbiamo prestato servizio come preti ci hanno seguito. Non solo con contributi economici, ma soprattutto con impegno personale. Da Abbiate è nata l’idea dell’acquedotto: le persone si chiedevano come aiutare questa popolazione. Il tutto è stato portato quasi a termine dopo tre anni di lavoro, grazie anche all’aiuto della Provincia di Varese».

Non solo contributi economici quindi…
«I soldi non sono tutto. Infatti noi non diamo mai in mano i soldi alle persone che aiutiamo. Ad esempio, se una casa è stata distrutta, aiutiamo a ricostruirla, diamo gli strumenti. I soldi il giorno dopo non ci sono più, così non va bene. Si deve agire sulla cultura che per anni ha visto queste persone non prendere in mano la propria vita. E lo dobbiamo fare in silenzio, ascoltandole molto, stando con loro, aiutandole a cambiare il modo di porsi per reagire alle numerose sventure che capitano a questa popolazione colpita da epidemie, terremoti, uragani, malattie. L’acqua potabile aiuterà molto dal punto di vista sanitario, ma dovremo insegnare loro come usarla per dare una qualità di salute diversa».

Qual è stata la difficoltà maggiore da superare da quando si trova lì?
«Questo è un paese che è diverso non solo per linguaggio (il creolo è molto difficile, non c’è nulla di scritto), ma per cultura. Si deve entrare in criteri di giudizio diversi da noi. Si deve soprattutto ascoltare per capire una mentalità diversa. Questo credo sia è stato l’ostacolo più difficile da affrontare».

A distanza di cinque anni, cosa crede l’abbia portata ad affrontare questa situazione?
«La risposta è sempre difficile. Non c’è una cosa che spinge a cambiare. Io dovevo cambiare parrocchia e sentivo di aver bisogno di trovare una maniera diversa di servire il mio credo. Avevo già raggiunto Don Giuseppe in Perù prima e ad Haiti dopo. Mi son chiesto perchè non cambiare in maniera più seria, non per fare cose straordinarie, ma per mettermi in contatto con una realtà diversa. Questo mi ha molto aiutato personalmente, impostando in maniera diversa il mio credo. Mi ha aiutato a rinnovarmi nello spirito, non proponendomi come si faceva qui, ma ascoltando maggiormente».

Ora che l’acquedotto è in dirittura di arrivo, ci sono altri progetti?
«Ce ne sono molti di progetti che sono ancora in essere, come la ricostruzione delle case, oppure quello per i bambini disabili che, per la loro condizione, vengono emarginati. Questo, per esempio, è un processo lungo, in cui si deve far cambiare la mentalità alle famiglie. In sostanza, si affida ad ogni parrocchia, comunità, o gruppo di amici, un progetto preciso. Questo serve anche a noi per non fare le cose senza una guida. Si può fare di tutto e di più, e c’è ancora molta strada da fare».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 15 Luglio 2012
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