Frangilli: “Ho dormito con la medaglia sotto il cuscino”

Intervista con l'olimpionico di Gallarate che torna in pedana per VareseNews e fa "10" alla prima freccia. «L'oro ci voleva per completare la collezione. Lo dedico a mia madre, scomparsa nel 2005»

La felicità è chiusa in una scatola di plastica nera, rigida. La felicità è rotonda, piuttosto pesante, e con un nastro viola per essere appesa al collo. La felicità è una medaglia d’oro con cui Michele Frangilli, a Londra, ha completato la sua personalissima collezione olimpica: un bronzo nel 1996, un argento nel 2000 e ora, finalmente, il gradino più alto del podio.
«Prima o poi, quando nessuno la vorrà più vedere, infilerò anche questa nel cassettone dove tengo le altre» sorride bonario il ragazzone di Gallarate che ci accoglie all’ingresso del campo di tiro della Compagnia Arcieri Monica, dove ha costruito la sua leggenda. «Quelle di Atlanta e Sydney le ha riesumate mia sorella Carla dopo la vittoria di Londra, ma ho la sensazione che questa starà "all’aperto" per parecchio tempo» spiega mentre ci apre il cancello e scarica dalla macchina il valigione che contiene l’arco e il resto dell’attrezzatura, ancora chiuso con i sigilli di Londra visto che dalla fine della gara individuale Michele non ha più scoccato neppure una freccia. Poco male: una volta montato l’arco e indossata la bardatura da gara, Frangilli ci regala una serie di volée in cui dimostra di non aver perso lo smalto: prima freccia, "10" pieno come quello che è servito per vincere la finale a squadre.

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Le frecce d’oro di Michele Frangilli 4 di 19

Prima di partire per Londra lei non ha fatto grandi proclami ma ora lo possiamo dire: questo oro le mancava.
«Sì, di sicuro. Dopo un terzo e un secondo posto era ora di completare l’elenco delle medaglie. Ho sempre detto che non avrei smesso fino alla conquista dell’oro, perché era l’obiettivo della mia carriera».

Se dice così ci preoccupa: ha intenzione di smettere?
«No, mi prendo un breve periodo di riposo ma proseguirò a gareggiare. In questo sport si può andare avanti a lungo, fino a che il braccio consente di avere sufficiente potenza per tirare e quindi non mi fermo qui. È fondamentale il fatto di essere nel gruppo sportivo di una forza armata, nel mio caso l’Aeronautica, altrimenti avrei smesso da tempo. Ho il grado di aviere capo, uno stipendio normalissimo che però consente di allenarmi con costanza e di pagare il mutuo della casa: in caso contrario avrei smesso da tempo».

Lei è militare dal 2006: fino a quel momento come ha fatto?
«Semplice: lavoravo. In un negozio specializzato in articoli di tiro con l’arco a Pero: avevo un supporto federale e permessi per andare ad allenarmi ma dovevo comunque rispettare orari e vincoli. Per un po’ l’ho potuto fare ma senza l’Aeronautica non sarei mai arrivato a Londra, ve l’assicuro».

Londra appunto. Ci racconti quella freccia con cui ha centrato il "dieci" che ha dato l’oro alla squadra italiana.
«Il primo pensiero è stato "Ce l’abbiamo fatta, abbiamo vinto". Volevo buttare l’arco per abbracciare meglio i miei compagni, non l’ho fatto solo perché dovevo conservarlo per la gara individuale. Comunque, nonostante frecce e bardatura mi sono stretto a Galiazzo e Nespoli. E chi se ne frega se abbiamo rischiato di rompere gli attrezzi, la felicità andava oltre ogni cosa».

Il rapporto tra di voi è così forte?
«Sì: siamo tutti amici, ci conosciamo da tempo. Ciò vale per noi tre ma anche per il resto della squadra nazionale a partire da Luca Melotto che era la riserva. Ci alleniamo spesso insieme nei raduni federali, ci conosciamo a fondo, siamo arrivati tutti insieme a questo risultato».

A Londra i favoriti erano i coreani, soprattutto dopo la qualificazione. Vi ha aiutato il fatto di trovare in finale gli Stati Uniti?
«Abbiamo valutato il tabellone passo dopo passo e devo dire che con il passare dei turni si sono aperte davanti a noi strade interessanti. La qualificazione al sesto posto ci ha messo dalla parte opposta rispetto alla Corea del Sud e quello era il primo obiettivo. Abbiamo eliminato Taipei come da pronostico, poi c’era la Cina che era alla nostra portata. In semifinale abbiamo trovato il Messico che ha eliminato la Francia, squadra che temevamo; con i messicani siamo andati relativamente tranquilli perché li abbiamo battuti ai Mondiali di Torino e sapevamo che sulle frecce decisive sarebbero potuti crollare e così è stato. Quando poi gli Usa hanno eliminato la Corea ci siamo detti: "Ora o mai più"».

Nell’individuale invece siete usciti subito. Cosa è accaduto?
«Per quanto mi riguarda, sono andato male nell’ultima prova di Coppa del Mondo dopo la quale avrei avuto bisogno di più tempo per mettermi a posto. Purtroppo non ho avuto lo spazio necessario per lavorare con mio padre, che è anche mio allenatore, perché la Federazione ha programmato un raduno collegiale. Ciò probabilmente è servito per cementare la squadra ma ha rallentato la preparazione individuale. Io sapevo che nella prova singola avrei potuto soffrire e così è stato, anche perché in una gara simile trovi avversari fortissimi e al top; per fortuna però ciò non ha inciso sulla gara a squadre dove invece ho tirato bene».

Ci racconti il "dopo": festa e permanenza a Londra.
«Abbiamo celebrato la medaglia a Casa Italia, con i vertici di Coni e Fitarco e finalmente quella sera abbiamo mangiato bene. Poi, almeno per una notte, ho dormito con la medaglia sotto al cuscino come un bambino, anche se sono rimasto a letto poche ore, dalla una alle 7 quando mi sono alzato perché la tensione era ancora altissima. Nei giorni seguenti invece ho avuto tempo di girare per il Villaggio: un’esperienza sempre bellissima che consente davvero di respirare lo spirito olimpico. Mi piace mangiare accanto a gente sconosciuta, fare amicizia con loro, giocare a indovinare lo sport praticato da tutti quelli che incroci. E poi sono un grande collezionista di pins: al Villaggio c’è una grande attività di scambio che mi appassiona sempre». 

A proposito di mangiare bene: lei e i suoi compagni non avete esattamente dei fisici atletici. Ma voi su questo ci scherzate.
«Ad Atene mi ero messo a dieta, ero arrivato a 82 chili ma non mi sentivo a mio agio. E poi io soffro di parecchie allergie, in particolare all’amido di mais: devo già stare attento a un sacco di cibi, e se devo anche iniziare a ragionare sulla dieta non me la cavo più. Inoltre, a questo punto, credo che il mio fisico sia questo e ciò mi dà sicurezza. Ecco, magari qualche chiletto potrei limarlo (ora Michele è a quota 112…) ma non lo sento come un problema: diciamo che anche in pedana tutto ciò aiuta a stabilizzarmi per essere più preciso».

Per concludere, la domanda più classica che nel suo caso ci permette di ricordare una persona speciale. A chi dedica prima di tutti questo oro?
«Proprio così: lo dedico a mia madre che è scomparsa nel 2005. La medaglia è anzitutto un omaggio e un ricordo per lei, che è sempre stata vicina e ha sempre sostenuto me, mio padre e mia sorella. Mi torna in mente il 2004, i Giochi di Atene: già non stava bene ma venne in Grecia con tutta la famiglia per starmi vicino un’altra volta. Ora mi manca, ma l’oro è per lei».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 09 Agosto 2012
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