Charles Lloyd “canta” la schiavitù
Nuovo disco Ecm per il sassofonista statunitense: dedicato alla bisnonna e alla grande tradizione della musica nera
Charles Lloyd è un sassofonista che, al pari dell’opera lirica, si può solo amare o odiare. Nella sua arte, difficilmente ci sono vie di mezzo: nello stile richiama John Coltrane (ma a modo suo e con una originalità armonica più che spiccata), dal 1966 al 1968 forma un quartetto con il quale fa conoscere Keith Jarrett (a quell’esperienza si deve uno fra i dischi di maggior successo di Lloyd: Forest Flower) e negli anni Settanta collabora con i Doors (suona in alcuni brani del disco Full Circle), i Canned Heat e i Beach Boys. E proprio questi ultimi (God Only Knows) rientrano ora nella scaletta di “Hagar’s Song” al fianco di Bob Dylan (I Shall Be Released), Billy Strayhorn, Duke Ellington, George Gershwin, Earl Hines, Billie Holiday. Un disco – nuovamente pubblicato dalla Ecm – che presenta Lloyd interagire con Jason Moran, pianista che si proietta nell’intero spettro della musica senza tradire alcuna preferenza stilistica. In realtà, sono questi gli improvvisatori che piacciono a Lloyd perché, come già aveva fatto con Jarrett, il sassofonista privilegia coloro che non fanno sintesi musicale ma stratificazione. Dal blues al free, dal soul all’hard-bop all’avanguardia, Lloyd vuole l’intelligenza logica di chi mette d’accordo la fantasia all’organizzazione sonora. Anche in questo “Hagar’s Song”, disco che Charles dedica alla sua bisnonna strappata dalla terra d’origine e venduta come schiava ad un possidente terriero in Tennessee, si avverte la tensione degli incastri che tanto rendono affascinante la musica del polistrumentista. Moran, che non accompagna ma puntualizza gli interventi di Lloyd, è la roccaforte di un’incisione nella quale le strutture originali sono spolpate e ricostruite trasformando l’armonia in melodia. E il canto si amplifica distendendosi in linee che si rigenerano in una sorta di primitivismo. L’assenza di basso e batteria non sempre è una scelta azzeccata (soprattutto nei “classici”), ma nella suite “Hagar’s Song” la trasparenza sonora e la raffinatezza degli impasti fa dimenticare qualsiasi, piccola, mancanza.
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