I dieci comandamenti per evitare la crisi con le banche

Il decalogo presentato alle imprese varesine durante un incontro del ciclo “Approfondimenti di finanza per l’impresa”

Quella usata per valutare la tenuta dei bilanci non è una scienza esatta. «Sotto questo aspetto siamo ancora all’epoca mesozoica”. Banche, imprese, Stati sono, su questo fronte, sulla stessa barca». Ne è certo Claudio Grossi, docente di Programmazione, Controllo e Finanza Aziendale all’Università Cattaolica di Milano e Presidente di Mark-Up Consulting. È stato lui il protagonista del terzo appuntamento del ciclo "Approfondimenti di finanza per l’impresa", messo in calendario dall’Unione degli Industriali della Provincia di Varese per tutto il 2013. Obiettivo: diffondere tra gli imprenditori locali una maggiore sensibilità sulla cultura finanziaria. 
Un percorso di crescita che con l’ultimo appuntamento, tenutosi nella Sede di Busto Arsizio, si è concentrato sul tema delle imprese sane e affidabili. Partito da un assunto: «Le macchine di Rating sono implacabili». Quelle degli Stati, certo. Ma anche quelle che le banche utilizzano per valutare le imprese. «In un Paese i cui mercati rispettassero i tempi di pagamento – ha provocato la platea Claudio Grossi – le crisi di liquidità delle imprese sarebbero causate solo da eventi imponderabili o da errori gravi nelle scelte aziendali». In realtà a pesare sull’affidabilità delle imprese e la loro tenuta è la situazione dei pagamenti. I cui tempi medi effettivi sono, in Italia, mediamente a 103 giorni, per quelli fra le imprese. A 180 quelli con la Pubblica Amministrazione. In Germania? I due dati scendono rispettivamente a 37 e a 35. Questo per dire che: «Il problema spesso additato alle nostre imprese della bassa capitalizzazione non è quello principale. Le imprese sono sotto capitalizzate rispetto alle esigenze del mercato che le paga con una lentezza che alza il fabbisogno finanziario per sostenere i costi del personale, dei servizi, delle bollette, degli affitti». Come dire: il problema non sta nella capitalizzazione nei suoi valori assoluti o nella mancata iniziazione di capitali da parte degli imprenditori, ma nei livelli imposti alle aziende da distorsioni di un mercato pigro nel saldare le fatture. Il che implica esigenze finanziarie triple rispetto ad aziende di altri Paesi come la Germania.
Da qui l’esigenza di liquidità delle imprese, la necessità di indebitarsi, le richieste di credito alle banche. Con cui, al di là dei gap competitivi del sistema, bisogna fare i conti. Poco importa se le esigenze di cassa nascono dai ritardi nei pagamenti dei clienti. I Rating bancari non perdonano comunque. E fotografano l’azienda sviluppando un’immagine del tutto diversa da quella che gli stessi imprenditori hanno di fronte a loro nel leggere gli stessi bilanci. Incomunicabilità. Linguaggi differenti. Il relatore lo ha dimostrato con un esempio concreto di lettura degli stati patrimoniali. Non è la redditività a interessare gli istituti di credito. Questa è una voce la cui crescita fa felici titolari di impresa, manager, soci: «Mettetevelo in testa – ha spiegato agli imprenditori varesini Claudio Grossi – i numeri e i fatti che voi guardate per misurare il successo aziendale sono diversi da quelli usati per lo stesso scopo dalle banche. Voi guardate alla crescita della produzione, del fatturato, dei nuovi clienti e mercati, delle assunzioni. Tutte cose di scarso appeal per i bancari che pongono altre domande: sei capitalizzato? Sei poco indebitato? Quanto sei capace di garantire? Se rivoglio i soldi da dove li prendi per ridarmeli?». Questo fa della banca non un partner dell’impresa “ma un suo fornitore, il suo cliente più difficile”. Occorre, è stato il consiglio del docente dell’Università Cattolica, fare molta attenzione perché “commettere un passo falso nelle decisioni può influenzare il rating e ciò equivale a giocarsi ogni tipo di rapporto perché nessuna banca può salvare un’impresa che si trova in cattive acque di rating. Non è cattiva volontà dei decisori, è la perversa logica del rating sposato dalla normativa di Basilea 2”.

E quindi? Dall’esperienza sul reale il relatore ha dato agli imprenditori varesini 10 suggerimenti, un decalogo. Tavole, anzi slide, per riuscire a stare davanti ad una banca non solo con bilanci in regola, ma anche buoni rating. Grossi li ha chiamati "i dieci comandamenti tecnici":
Primo: avere una redditività media due volte e mezza gli oneri finanziari.
Secondo: tasso di redditività delle vendite superiore al tasso effettivo del costo del denaro.
Terzo: qualità del reddito operativo buona, cioè con bassa variazione delle scorte.
Quarto: corretta correlazione tra natura e durata dei fabbisogni. E tra natura e durata delle fonti.
Quinto: accordati in centrale dei rischi maggiore degli utilizzi.
Sesto: buona qualità degli accordati, intesa come giusta correlazione tra quantità e tipologia delle linee di credito rispetto alla natura dei fabbisogni.
Settimo: posizione finanziaria netta a breve minore del capitale circolante netto commerciale.
Ottavo: debiti finanziari totali inferiori al 40% del fatturato.
Nono: debiti finanziari inferiore a cinque volte i propri.
Decimo: saper argomentare con le banche circa il rispetto di questi comandamenti, dimostrando un affidabile sistema di analisi previsionale e un raffinato sistema di reporting.

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Pubblicato il 10 Maggio 2013
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