Il cooperante fungiatt: vi racconto la mia Africa

Marco Macchi, appena rientrato dal Congo racconta i suoi vent’anni da logista nelle ong che aiutano il continente nero. “Su facebook agli amici africani dico: siamo nella stessa barca”

africa macchiAiutare chi ha bisogno. Bastano quattro parole come queste, a volte, per accorgersi che dietro ad esse si nasconde un’intera vita. E la vera motivazione di questa vita è la passione per l’ignoto. Marco Macchi non fa giri di parole per raccontare quasi vent’anni di attività in Africa centrale: come lavoro fa il cooperante internazionale: «Non sono un missionario, piuttosto mi definirei un professionista che mette a disposizione le sue competenze per un progetto che ha come fine quello di aiutare gli altri». 
Ma attenzione: lo stereotipo dell’africano che muore di fame e che non è in grado di opporsi alle multinazionali che lo sfruttano o alle potenze neocolonialiste, non funziona: «Oramai ho tanti amici africani con cui sono in contatto perenne grazie ai social network. Bene: spesso, parlando, salta fuori la questione ‘noi africani’, ‘voi occidentali’ eccetera: beh io non ho problemi a sottolineare la sostanziale eguaglianza fra un occidentale a un africano: oramai il concetto di sfruttamento delle risorse non riguarda più le persone, neppure gli stati, ma semplicemente quelle 200-300 persone che fanno soldi con oro, diamanti, materie prime. Prendiamo il caso del Coltan, un minerale da cui si produce il Tantalio, componente fondamentale per un oggetto divenuto di uso comune non solo in Europa, ma anche in Africa: il telefono cellulare. Proprio il cellulare, che assieme alla tanica dell’acqua in plastica introdotta in Africa a partire dagli anni 70’ rappresenta uno dei due fattori di enorme sviluppo del continente degli ultimi anni. I cellulari, però, vengono usati tantissimo dagli africani: non appena il reddito aumenta, crescono i consumi di questi prodotti d’uso comune. Il meccanismo è sempre lo stesso, sia per gli africani, sia per gli occidentali. Il problema che gli amici africani devono risolvere non si chiama fame, ma corruzione, classe dirigente, politici locali».africa macchi
Marco non usa perifrasi per arrivare al nocciolo della questione. Racconta la sua esperienza seduto su di una poltrona della sala in una casa con giardino in un quartiere residenziale di Varese, nel verde ordinato del capoluogo: vialetti, villette, giardini. A metà luglio la organizzazione non governativa (ong) milanese per la quale lavora lo ha fatto evacuare dal Congo: «Sparavano troppo. E in più il passaporto era in mano alle autorità da tre mesi: troppo rischioso avventurarsi in un paese dove il clima si sta surriscaldando. Quindi mi hanno chiamato e imbarcato su un aereo ed ora eccomi qua».
È un lavoro, sottolinea, un lavoro che devi però sentire. «Come diceva Cesare Pavese, ‘la miseria ha anche la sua puzza’: devi mischiarti ai popoli che vai ad aiutare se vuoi capirci qualcosa. Io ho fatto così. Non saprei farlo come avviene in altri contesti, ad esempio fra i funzionari Onu con auto privata, aria condizionata un ufficio ecc. Io la sera vado nei bar a parlare con le persone, solo così riesco a vivere questa esperienza». Marco, classe 1969, alla fine delle scuole superiori, dopo il diploma all’Itis decise di girare il mondo, di lavorare fuori dall’Italia. Mandò 82 curriculum vitae, gli risposero in 3, tra cui una ong di Piacenza, la “Cooperazione e Sviluppo”: venne assunto come logista per un progetto di costruzione pozzi in Uganda, Africa centrale. Da allora è diventato cittadino del mondo.
Ha lavorato in Kenya, Sud Sudan, Ruanda, Uganda, Tanzania, Congo
africa macchiCosa sta succedendo in Africa? Marco non ha dubbi: «L’Africa sarà, è, il futuro – racconta . Ci sono paesi con tassi di crescita molto interessanti, soprattutto l’Uganda e il Ruanda. In Uganda hanno addirittura trovato il petrolio e per fortuna hanno investito in oleodotti e soprattutto raffinerie: vuol dire che la ricchezza rimane sul posto, si sviluppa il benessere e crescono i consumi. La questione della fame nell’Africa, rappresenta un problema se vi sono conflitti, o carestie. Ma altrimenti gli africani non se la passano male: se non ci sono guerre o carestie la gente non muore di fame, riesce a vivere dignitosamente, a volte possono esserci casi di malnutrizione a causa di una dieta non varia, quello che servirebbe a far stare bene è l’accesso alle cure mediche a basso costo, e istruzione gratuita: mangiano polenta, come noi, ma bianca, in enorme quantità. Vi sono persino popoli come la tribù Dinca, nel sud del Sudan che si nutrono di sorgo che hanno una costituzione fisica spettacolare: sono molto forti».
Comunque nel ’95 Marco lascia l’Italia. «Volevo stare dapperttutto, girare, visitare», e un po’ ci è riuscito. Il suo ruolo era quello di organizzare trasporti o curare la logistica dei progetti. Ha fatto numerose esperienze anche come capo progetto in alcuni paesi africani. E’ stato anche in Ruanda, a pochi anni dal genocidio perpetrato dagli Hutu nei confronti dei Tutsi: una piaga che ancora non si è chiusa: odio che spesso cova sotto la cenere per esplodere d’un tratto. La colpa? «Ha certamente concorso il colonialismo degli stati europei che oltre a tirare i confini col righello, hanno ignorato le componenti culturali, tribali, religiose. Un esempio per tutti: il Sudan, con un nord musulmano e di cultura araba e un sud animista e sub-sahariano».
Impossibile, sebbene l’intervista risalga a prima dei fatti di Lampedusa, non pensare alle vittime della tratta di uomini, di chi scappa verso nord in mano ai trafficanti di vite. L’idea della cooperazione serve ad evitare proprio tutto questo: a dare un livello di benessere e di prospettiva futura che solo attraverso l’autosufficienza economica e soprattutto politica, può garantire le garanzie basilari alle generazioni future.
Paura? «Sì l’ho provata, ho sentito il freddo della canna di un kalasnikov puntato sul collo, nel buio della notte congolese, nel 2006. Può succedere che ti vieni a trovare in situazioni pericolose. Solo poche settimane fa, sempre in Congo arrivavo in ufficio al mattino e nel corso della giornata si sentivano le raffiche di mitragliatrice. È chiaro che non è un lavoro come un altro, ma certamente non puoi mai fare l’abitudine alla violenza, alla disumanità: devi sempre ricordarti di tenere ben chiare le regole di condotta: devi avere un codice etico. Una linea etica».africa macchi
Ma quanto si guadagna? «Si parte da uno stipendio base che può aggirarsi fra i 2.400-2.800 euro per personale esperto, per arrivare ai 3.500 euro del ‘responsabile paese’ per una ong (mentre per i dipendenti Onu è tutta un’altra storia: lì gli stipendi arrivano anche ai 6-7000 euro al mese».
Cosa farai ora? Com’è la situazione in Congo? «Per ora aspetto. Nella mia ultima missione la situazione è andata degenerando per via di molte tensioni presenti nel Paese: in Congo non c’è una vera e propria guerra civile. Vi sono però altissime tensioni sociali dovute al fatto che a quanto pare il presidente Joseph Kabila è di etnia Tutsi e quindi tiene come il piede in due scarpe, da un lato cerca di mantenere buone relazioni con i presidenti dei due paesi confinanti più significativi, Rwanda e Uganda capeggiati da persone di etnia Tutsi, e dall’altro cerca di ricordarsi di essere congolese. Tra l’altro stiamo parlando del figlio illegittimo di Laurent-Désiré Kabila, una sorta di mito per i congolesi, uno che parlava con Che Guevara e che ha conquistato il paese città dopo città rovesciando il regime di Mobutu Sese Seko, nel ’97. Dopo il suo assassinio, nel 2001, il figliastro prese il potere in uno stato ricco di tensioni, fino a che nella zona del Nord Kivu controllato dai Tutsi intervenne l’esercito del Ruanda: ufficialmente per mettere a freno i “ribelli”, ma di fatto per mettere le proprie mani su questa zona ricchissima. Capisci che in una situazione del genere l’instabilità la fa da sovrana ed è facile rimanere vittima di violenze».
Non pensi mai a casa quando sei in missione? «Sì, penso a casa, penso al mio futuro e al fatto che sia difficile con questo lavoro costruirsi una famiglia. Le mie radici sono e restano qui: a volte (e sembra pazzesco ma è così) non vedo l’ora che arrivi l’autunno per salire sull’aereo e dopo poche ore trovarmi in Val Grande a cercare funghi: le mie ferie le faccio in questo modo»
La chiacchierata volge al termine. Marco parla, trova l’ispirazione guardando nei ricordi e spiega la grazia delle donne africane, la crudeltà delle mutilazioni nelle zone di guerra, la bellezza della lingua Swahili, che viene parlata in 11 stati: una lingua non scritta e che si trasmetteva con l’oralità e codificata proprio dai missionari comboniani italiani. Marco ancora racconta e racconta fino a che dalla finestra non entra il buio.
Hai per caso il mal d’Africa? Sorride, scuotendo la testa: «Sono stato in posti dove questo male è l’ultimo che puoi prendere».

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Marco Macchi, la mia Africa 4 di 10
Redazione VareseNews
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Pubblicato il 08 Ottobre 2013
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