“Ho in mente un film che non finisce mai”

Luciano Giaccari è considerato uno dei padri della Videoarte. Oggi le sue opere sono richieste dalle più importanti gallerie d'arte contemporanea e inserite nelle mostre internazionali

Luciano Giaccari

«Ho cominciato con il botto all’Attico di Roma del Festival di musica e danza in Usa, con l’happening di Allan Kaprow a Milano e il Living Theatre a Venezia: pura avanguardia». Luciano Giaccari è considerato uno dei padri internazionali della Videoarte e quando negli anni Settanta riprendeva le performance degli artisti, soprattutto danzatori e autori di teatro, forse non sapeva di essere a sua volta un’avanguardia. Oggi le opere della «Videoteca Giaccari» sono richieste dalle più importanti gallerie d’arte contemporanea e inserite nelle mostre internazionali, come quella che si è appena conclusa a Roma sugli Anni 70 nella prestigiosa cornice del Palazzo delle Esposizioni.

Giaccari, in anticipo sui tempi lei aveva capito che il video era arte e non solo un mezzo per diffonderla. Oggi l’evoluzione della tecnologia, la sua facilità di utilizzo e il basso costo favoriscono l’intuizione artistica?
«La visionarietà è decisiva per gestire questo fenomeno di trasformazione, ma è un compito che spetta agli artisti, non alle macchine. Quindi se partiamo da un dato puramente quantitativo, oggi c’è il rischio di derive dispersive delle ispirazioni, mentre la visionarietà ha bisogno di una centralità, di una visione assoluta sia del mezzo che del messaggio. Attualmente invece sempre più spesso tutto è diffuso, stemperato, diluito. Perciò direi che è un momento molto critico e che si debba evitare assolutamente che l’arte alla lunga venga coinvolta affogando nella liquidità di questa società».

Vuole dire che il video è inflazionato come genere artistico?

«Voglio dire che a un certo punto la specificità del video ha talmente sovrastato i media artistici tradizionali che alla fine ha rischiato una sorta di inflazione suicida dovuta ad una iperproduzione talora indifferenziata. Al contrario la specificità di una metodica espressiva è essenziale per concretare quel tasso di visionarietà decisivo per l’arte. E’ quindi indispensabile che il video conservi le sue specificità, anche se evolutesi, che però lo distinguano ad esempio dalla banalità dei prodotti della macro-televisione. Va evitato quindi ogni rischio di dispersione dei valori significanti per pervenire a quella sintesi decisiva che ha sempre caratterizzato il lavoro dell’artista quando questi sia riuscito a incidere significativamente sulla realtà.

Che cosa c’è di interessante oggi nel panorama della videoarte?
«Bisognerebbe girare molto e stare nei luoghi dove passa la storia, come 40anni fa. Bisogna fare delle distinzioni: se da un lato ci sono artisti come Bill Viola che hanno scavato nella profondità dello strumento e delle sue potenzialità cii sono poi altri artisti che hanno sperimentato il video quasi come replicanti della televisione broadcast. Inoltre quando si parla di avanguardie artistiche si pensa a quelle europea e degli Stati Uniti, mentre oggi è venuto il tempo di guardare anche ad altre esperienze nazionali che hanno superato ormai la fase infantile e si manifestano con originali componenti culturali: Spesso anzi proprio nella intercapedine del loro ritardato o meglio sfasato sviluppo rispetto all’occidente hanno trovato i motivi di una loro originalità. Per intercettare tutti questi fenomeni vitali ci vorrebbe la stessa intensità di frequentazione degli anni ‘70, quando sono stato testimone attivo delle Avanguardie del Secondo Novecento! Va poi anche considerato quanto possano essere oggi particolarmente interessanti anche quei fenomeni che scorrono e passano molto più velocemente di un tempo e magari proprio queste diverse velocità potrebbero generare utilmente una sorta di arte totale senza confini temporali o di generi».

È una trasformazione che hanno subìto anche altre arti?
«La storia delle Avanguardie del Secondo Novecento che ho citato aveva registrato una caduta di rigidi confini tra le Arti con frequenti reciproche contaminazioni. Ci sono poi stati filoni dove l’evoluzione ha dato vita a qualcosa di nuovo mentre in altri casi sono seguite delle vere e proprie restaurazioni. Se penso al teatro ad esempio, che da sempre aveva avuto il suo fulcro nella parola, negli anni Sessanta non parlava più ma era pura azione. Ora è ritornata prevalentemente e spesso tragicamente la parola. Questo però non vuol dire che il Living Theatre sia stato inutile per le autentiche nuove generazioni dell’arte, anzi».

Lei per le sue opere si è inventato la formula della “porziuncola” museale. Di che cosa si tratta?
«Tutto è nato da una mia esigenza: volevo conservare i caratteri di unicità della mia collezione e allo stesso tempo far sì che i miei lavori arrivassero a un pubblico più ampio possibile. Il mio primo progetto è stato quello di un Techno- museo: il MUel- museo elettronico, presentato a La Biennale di Venezia nel 1993. Un museo basato sulla video-visione dove proporre la mia Collezione, magari con la saletta della danza, quella del teatro, della poesia e con gli spazi per le consultazioni sia individuali che collettive e per gli spettacoli dal vivo che venivano a loro volta registrati. Sono state realizzate a Varese due allocazioni del MUel una al Castello di Masnago e una a Villa Toeplitz nel 1995 e nel 2004 ma per entrambe le ipotesi il Comune di Varese non è stato poi in grado di mantenere le iniziative. D’altra parte, non essendo la semplice “messa in rete” per una fruizione su internet del mio lavoro una soluzione attendibile, in quanto rischierebbe di disperdere una lettura organica e qualificata delle opere, ho pensato di meglio definire un referente museale alternativo. Ecco perché ho sviluppato il progetto “Porziuncola”, un network museale più leggero rispetto al MUel e quindi più facilmente realizzabile: ogni museo accoglie una Porziuncola quale emanazione del progetto MUel e tutte questi moduli museali decentrati formano il complessivo progetto di network.

È soddisfatto di questa soluzione?
«Diciamo che sono comunque molto arrabbiato, perché in 25 anni ho raccolto senza alcun finanziamento il meglio delle arti di tutto il mondo, e poi ho impiegato altri 20 a cercare di rendere istituzionale una struttura museale (anch’essa d’avanguardia) per conservare quel raccolto prezioso. Non ho naturalmente accantonato l’idea del MUel (che magari si farà a Berlino(?!) Panza docet) ed ho ritenuto tatticamente che fosse più facilmente realizzabile il progetto del network basato sulle Porziuncole essendo più probabile trovare fuori Varese, in un contesto maggiormente acculturato, dei collaboratori istituzionali attendibili peraltro diffusi anche internazionalmente e magari meno coinvolti nell’attuale parabola discendente dell’economia. In ogni caso il Network web-museale svilupperà nuovi modi di fare arte e di comunicarla».

Dopo il network, ha in mente un nuovo progetto?
«Sì, un film che non finisce mai, che dura sempre in cui possano anche confluire e fondersi le diverse forme d’arte che più amo»

Perché nella vita ha scelto di fare il notaio?
«Perché en passant ho vinto il concorso e ho valutato che il reddito della professione mi avrebbe consentito di finanziare il mio vero lavoro, quello artistico».

di
Pubblicato il 17 Marzo 2014
Leggi i commenti

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.

Segnala Errore

Vuoi leggere VareseNews senza pubblicità?
Diventa un nostro sostenitore!



Sostienici!


Oppure disabilita l'Adblock per continuare a leggere le nostre notizie.