Astuti: «È finita l’era del “ghe pensi mi”»

Intervista con il segretario del Partito democratico. "La politica a Varese non è stata capace di valorizzare il territorio e di dare una prospettiva di sviluppo"

Si devono sommare i voti di Forza Italia, Lega nord e Nuovo centro destra per raggiungere il risultato del Pd. Un successo straordinario con oltre 162mila preferenze in provincia di Varese per il partito di Renzi e Astuti. Nella storia della sinistra un consenso di queste dimensioni ci fu solo per il voto alla Camera nel lontano 1976, quando l’allora partito comunista prese lo stesso numero di voti del Pd di oggi.

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Samuele Astuti: sindaco e segretario del Pd 4 di 18
A una settimana dalle elezioni incontriamo Samuele Astuti, segretario provinciale del Partito democratico, per alcune riflessioni sull’attuale situazione politica e sulle prospettive del nostro territorio. Docente e ricercatore, con uno sguardo sempre attento all’innovazione tecnologica e al mondo economico, i suoi recenti “maestri” sono Enrico Moretti e Gianfelice Rocca. Lui viene da una famiglia che è la sintesi perfetta dei valori del mondo cattolico e comunista. Politicamente è figlio dell’Ulivo. Con una diversa dose di umiltà è un vincente, in anticipo perfino sul suo “capo” Matteo Renzi a cui lui è legato da tempo. Dopo aver vinto le elezioni comunali a Malnate, Astuti, da alcuni mesi si ritrova a guidare un partito che per la prima volta in provincia è ovunque in cima alle preferenze degli elettori.
Come è stato possibile un simile successo del Pd a Varese?
«Il risultato è il frutto della capacità del Pd, e del suo segretario nazionale, di mettersi nella linea d’onda della nostra gente. Per la prima volta si è stati capaci di far percepire una vera prospettiva rispetto ai problemi che stiamo vivendo».
 
Vuol dire che prima non era così?
«Le classi dirigenti precedenti hanno sempre fatto fatica a saper interpretare le esigenze dei nostri territori».
 
Anche a livello locale?
«A livello nazionale certamente si, con la unica eccezione, solo parziale, di Prodi. A livello locale sinceramente non lo possiamo ancora dire perché, quella crescita del 20% che dal 2009 ci ha quasi fatto raddoppiare i voti, oggi ha un solo nome e cognome: Matteo Renzi. Un risultato che potremo iniziare a spendere da adesso. Starà a noi consolidarlo, perché non è per nulla scontato che rimanga nel tempo».
 
Perché smorza la tanta euforia di questi giorni?
«Il nostro è un risultato eccezionale e dovremo lavorare per confermarlo, ma il contesto attuale è particolare e ci suggerisce il lavoro che dobbiamo fare. Non va bene pensare che abbiamo spostato voti e che siano ormai una nostra rendita. Dobbiamo fare crescere il partito democratico anche oltre quello che è stato possibile grazie a Renzi. Questo richiede impegno sul territorio».

Come giudica invece l’euforia della Lega che nella nostra provincia vede i propri consensi in calo, pur mantenendo i propri amministratori?
«In realtà non li conserva ovunque, e comunque andare a un rinnovo è meno difficile, se hai lavorato bene. In ogni caso per la Lega il dato non è rassicurante, anche se a noi interessa continuare a lavorare con serietà anche nelle città che non amministriamo da decenni. Questa campagna elettorale ci ha dimostrato che è finito il tempo del “ghe pensi mi”. Quell’idea non funziona più. I cittadini iniziano ad aver consapevolezza che per affrontare e risolvere i problemi c’è bisogno anche di loro, della loro partecipazione e del loro protagonismo. Dalla crisi si esce insieme e non con soluzioni personalistiche».
 
Ci sta dicendo che la politica deve ripensare al proprio ruolo?
«Certamente e il Pd sta lavorando su questo perché siamo convinti che i cittadini abbiano consapevolezza di questi cambiamenti. Nel nostro piccolo, a Malnate, scopriamo una grande generosità e disponibilità a farsi parte attiva nella soluzione dei bisogni concreti. L’amministrazione è attenta e interviene, ma senza l’impegno delle persone alcune opere non sarebbero state possibili. Abbiamo imbiancato tutte le scuole e i genitori sono stati protagonisti. Quel che voglio dire è che un progetto per esser sostenibile oggi richiede la partecipazione. La politica deve saper cogliere queste novità ed esserne parte».
 
Queste elezioni hanno portato indicazione forti, ma il clima non è propriamente positivo. Cosa si può fare per cambiarlo?
«Quello che indicavo prima. Occorre lavorare sui progetti e con le persone. Progetti nuovi che diano respiro, speranze perché i cittadini si sentano protagonisti e, usando una massima di Baden Powell (fondatore dello scoutismo, ndr), si adoperino per "lasciare il mondo migliore di come lo hanno trovato"».
 
Non siamo al ritorno della Democrazia cristiana, come indicano alcuni?
«La nuova Dc che aderisce al Partito socialista europeo è una notizia da prima pagina. Credo possa bastare questa risposta. Ma ascolti… Io quando c’era la Dc avevo 17 anni e non l’ho mai vissuta, come non ho mai vissuto il Pci. Guardiamo avanti».

 

Guardare avanti e pensare alla partecipazione. Crede che la cultura digitale possa esser utile in questo?
«Certamente. Siamo in una fase di opportunità straordinarie. L’accesso alla rete, l’ampia diffusione di dispositivi mobile (smartphone e tablet) e il social networking sono elementi preziosissimi che permettono a tutti i cittadini di partecipare».
 
Torniamo alle elezioni europee. Si votava per l’Europa, ma non se n’è parlato molto…
«In effetti se ne parla più adesso che prima del voto, ma direi che è meglio tardi che mai. Poi questo vale per altre forze politiche e non certo per il Pd. Comunque c’è stata molta confusione durante la campagna elettorale. È curioso come per alcune comunità si votasse per l’istituzione più vicina: il comune, e poi per quella percepita più distante: il Parlamento europeo. Mi è successo spesso che nelle iniziative elettorali le persone confondessero i piani. Il dibattito di questi giorni però mi sembra rimetta bene al centro l’Europa e Matteo Renzi sta svolgendo un buon lavoro. Il Pd oggi ha una grande responsabilità, ma questa potrà giovare a tutto il Paese. Il premier ha indicato con precisione quale strade prendere per il cambiamento. La Germania non è un problema, anzi… ma deve comprendere che occorre superare la politica del solo rigore per far ripartire l’economia in tutto il continente».
 
A proposito di economia, come vanno le cose nella nostra provincia?
«Il quadro clinico è critico e in questi ultimi anni non è stata predisposta nessuna terapia per il territorio. Oggi è chiaro che la competizione non è tra le aziende, ma tra i territori. Quanto ne sono consapevoli le imprese? Quali sono i temi infrastrutturali importanti? Quale può esser lo sviluppo? Domande centrali per Varese, tanto più se dovesse prender forma sostanziale la città metropolitana. Noi rischiamo di diventare la periferia della periferia. Abbiamo bisogno di costruire velocemente un progetto che riparta dalle buone risorse che abbiamo: le imprese, i lavoratori e la scuola. È un lavoro impegnativo che deve saper ascoltare le diverse istanze e poi però elabori un vero progetto». 
 
Si, ma veniamo da anni di profonda crisi, potrebbe obiettarle qualcuno?
«Sono proprio questi i momenti in cui è fondamentale individuare le opportunità di cambiamento. Il nostro territorio sta soffrendo più di altre province perché la politica qui non è stata in grado di fare sistema e di individuare una progettualità».
 
E chi lo doveva fare?
«La Provincia e chi la governava. Non era la Lega quella che diceva di saper interloquire con il territorio? Abbiamo visto dove ci hanno portato. Vuole un altro esempio di questi giorni? Quello che stanno facendo per Expo. È vero che è una caratteristica nostra andare ognuno per se, ma questo non è accettabile da parte di chi dovrebbe coordinare. Sempre la Provincia ha pensato di fare un po’ di tutto senza concentrarsi nello specifico e senza alcuna progettualità. Chi altro se non la politica dovrebbe fare questo? Se il nostro problema maggiore oggi è il lavoro, la preoccupazione dovrebbe esser quella di pensare ad Expo anche come occasione di occupazione. Noi abbiamo tante competenze, tante risorse, pensi solo alla logistica, e invece si pensa a tutt’altro. Manca completamente una regia politica».
 
Lei mette al centro il problema del lavoro. Questo è ormai chiaro, ma cosa si può fare in concreto?
«La prima cosa importante, che finalmente tutti hanno capito, è che non si crea lavoro per decreto legge. Occorre sviluppo e per far questo occorre una forte identità da un punto di vista economico. Ci domandiamo quanto possano contare il terzo settore, quanto saper incubare nuove imprese, quanto saper attrarre nuovi investimenti nel “medium intech”, come il presidente di Assolombarda, chiama la manifattura di innovazione tecnologica? Noi abbiamo settori produttivi importantissimi e su queste aziende dovremmo continuare a investire favorendole con servizi efficienti. L’Italia negli ultimi mesi ha ripreso ad attrarre capitali esteri ma, tornando a Varese, occorre saper fare marketing territoriale, che non è un’azione volta solo a incrementare il turismo. Da noi l’abbiamo intesa solo così».
 
Quali sono i settori su cui investire di più?
«A questa domanda non risponde mai nessuno perché non si ha il coraggio di fare scelte. Il primo settore è quello delle aziende costruttrici di impianti dove noi siamo eccellenti e competitivi a livello mondiale. Poi nell’impiantistica, nell’energia, nella moda e nell’aerospaziale. Da ultimo nei servizi ad alta innovazione tecnologica».
 
E il turismo?
«Può essere, ma l’offerta va completamente ripensata perché occorre individuare azioni che creino valore aggiunto. Il numero di notti passate a Varese dai turisti è ancora troppo basso».
 
Il terzo punto che lei citava è quello della scuola. Sul nostro territorio, allargandolo anche a realtà limitrofe, abbiamo istituti superiori notevoli, la scuola europea, sei atenei…
«E non esiste un coordinamento mi vuole dire. È così, ma noi dobbiamo continuare a investire sulla scuola perché avere bravi tecnici, bravi laureati, è un valore. Dove si creano maggiori conoscenze si sviluppa maggiore ricchezza per tutti. Storicamente è così, basti guardare a Boston o alla Silicon valley. Un territorio più ricco di cultura e di offerte formative è più ricco davvero per tutti. È da anni che sentiamo parlare dell’esigenza di maggior coordinamento, ma poi non arriva e non c’è alcuna programmazione comune e questo non va bene. Il territorio deva saper dare visibilità al complesso della propria offerta. Mi rendo conto che per tante ragioni è difficile da costruire, ma è indispensabile e dobbiamo continuare a batterci per farlo». 
 
Perché non si fanno le cose?
«Noi siamo diventati esperti nel saper porre i problemi. Siamo meno capaci di saper individuare le soluzioni. Vale a tutti i livelli. Pensi solo all’Europa che viene criticata per non aver molte cose, ma basterebbe pensare alla formazione e alla politica industriale. Non nel futuro, ma già oggi, non è pensabile competere in un mondo globale pensando di andare ognuno per proprio conto. Occorrono strategie comuni».
Strategie comuni che nella nostra provincia dovrebbero tener conto ad esempio che siamo una terra di frontiera. Perché vediamo sempre con ostilità questo tema?
«È un po’ quello che spiegavo prima riguardo al ruolo della politica. C’è un modo di considerare i problemi davvero particolare. Se non abbiamo il coraggio di guardare alle cose, quelle poi ci portano a tristi risvegli. Parlando della frontiera viene naturale pensare alla Svizzera, ma non solo. Le imprese lasciano l’Italia e scelgono di lavorare in un altro territorio perché lo trovano più competitivo. Non è una questione solo fiscale. Non basta più avere un buonissimo ingrediente. A differenza di quello che recita in questi periodi una pubblicità, per fare una buona pasta, non basta la pasta, occorre avere buoni prodotti almeno nella media. Solo allora si è in grado di competere. Il celodurismo di questi anni ha messo l’accento su alcuni nostri punti di forza e basta. Così non andiamo da nessuna parte. La politica deve saper tener conto del buon equilibrio di tutte le componenti e, fuori dalla metafora, la risposta può arrivare propri da una attenta riconsiderazione del concetto di territorio, ma non certo dal suo arroccarsi».
 
In questi giorni, anche a questo proposito, l’Istat ha pubblicato un report su alcuni aspetti demografici. In Italia non facciamo più figli e soprattutto riprendiamo a emigrare…
«Questo è un esempio di quello che dicevo prima. Siamo bravi a vedere i problemi, ma poi tutto resta com’è. Il deficit demografico è un grande problema legato alle prospettive del Paese. Molti nostri giovani vedono nell’emigrazione una risposta. Non siamo stati capaci di lavorare per una prospettiva di sviluppo e questo ha creato una situazione di ulteriore difficoltà. Lo percepiamo bene nel linguaggio: quante volte sentiamo dire in giro che fare un figlio adesso è una follia? Noi dobbiamo impegnarci per cambiare questo clima, e nel farlo occorre partire dalla questione dei diritti».

  La nuvola con le parole dell’intervista a Samuele Astuti


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Pubblicato il 31 Maggio 2014
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