Le due guerre di Giuseppe Bianchi, dalla Campagna di Russia alla prigionia in Germania

Il 26 gennaio 1943 la battaglia di Nikolajewka segnava l'atto finale della ritirata dell'esercito italiano dal fronte russo. Tra quelle migliaia di uomini c'era anche il soldato Bianchi: oggi è uno degli ultimi testimoni

Generico 2018

«A mezzanotte del mio ventesimo compleanno, ho iniziato la ritirata. Ho fatto 8 giorni senza mangiare, 35-40 sotto zero, sembravamo gente in processione, gobbi per il freddo, il vento. Si teneva una coperta in testa» (foto d’archivio). Nel mare di uomini in ritirata dal fronte del Don, nel lontano inverno 1942-43, c’era anche il soldato Giuseppe Bianchi, da Vizzola Ticino. Ha vissuto due guerre – la prima tra le nevi di Russia, la seconda per sopravvivere alla prigionia – e oggi è uno straordinario testimone, tra gli ultimi rimasti, della follia della guerra scatenata dal fascismo, ma anche della dolorosa pagina dell’occupazione nazista: Giuseppe Bianchi, insieme alla sua famiglia, ha lottato per anni per veder riconosciuta la sua seconda guerra, i due anni in cui fu ridotto a schiavo del Reich. «Quattro volte sono andato su e giù per quella strada [la ferrovia tra Italia e Germania]: prima la guerra, il ritorno, poi il campo di concentramento e un altro ritorno», racconta Bianchi, nel corso di un colloquio nella sua casa di Somma Lombardo.

Il 26 gennaio del 1943, settantadue anni fa, gli alpini della Tridentina affrontarono la tremenda battaglia di Nikolajewka, l’ultimo scontro per rompere l’accerchiamento russo e aprirsi la strada per tornare a casa (nella foto: soldati italiani in Russia, luglio 1942, Bundesarchiv, pubblicata con licenza CC BY-SA 3.0 De tramite Wikimedia Commons). Erano – gli alpini di Tridentina, Cuneense e Julia – l’ultima linea rimasta a difendere quel fronte su cui l’esercito italiano era stato trascinato da Benito Mussolini, desideroso di fare la propria parte accanto a Hitler, contro quella che veniva definita «la barbarie slava». Insieme agli alpini, si ritirarono per giorni anche migliaia di fanti: le loro storie sono forse meno conosciute di quelle degli alpini, ma fanno parte di una memoria da conservare. Che parte – come sempre – dalle case di tanti ragazzi ventenni, dove arrivarono le cartoline di precetto.

Un anno prima della ritirata, il 10 gennaio 1942, Giuseppe Bianchi aveva ricevuto la cartolina. 37° Fanteria, divisione Ravenna, addestramento alla cittadella militare di Alessandria. Da lì un viaggio infinito lo condusse in terra di Russia, prima in treno, poi in lunghe marce a piedi: «La prima notte passò, eravamo molto stanchi, con lo zaino affardellato che pesava dai 30 ai 40 kg col fucile ’91, questi pesi deprimevano il cammino, il giorno seguente si riprese la marcia al mattino presto», racconta Giuseppe Bianchi nel memoriale “Tubi di pasta”, raccolto grazie all’impegno della sua famiglia.

Un racconto asciutto, veritiero, crudo anche su aspetti a volte tralasciati, come la ferocia dell’occupazione: il giovane soldato Bianchi in quei primi mesi prima della ritirata vide gli orrori della guerra, ma anche il volto tremendo della violenza nazifascista in Ucraina e Russia, che poggiava sul disprezzo totale per la “razza inferiore”. «I tedeschi avevano bisogno di alcune isbe (le case contadine russe, ndr) per il loro comando e in una di queste viveva un vecchio con barba bianca e lunga con una nipote e i tedeschi li mandarono fuori in malo modo tutte e due. La nipote reclamò perchè il nonno cadde a terra per la spinta, al mattino dopo erano tutte e due appesi ad un albero di betulla, strangolati. Vidi trattare i prigionieri russi come fossero vermi, non c’era nessuna pietà per la popolazione, bambini, donne, vecchi e qualche handicappato, venivano uccisi tutti, solo qualcuno che si mostrava servizievole veniva risparmiato. Tralascio di descrivere altri casi perché orribili da raccontare» (nella foto: la valle del fiume Don, oggi).

Dopo l’autunno e alcune battaglie già cruente, «alla seconda settimana di dicembre i russi incominciarono a farsi sentire, al sedicesimo giorno i russi sparavano in continuazione e si sentiva aldilà del Don un gran movimento». È l’avvisaglia dell’attacco finale, della ritirata che travolse il fronte sul Don: dalla seconda di dicembre le Divisioni di Fanteria iniziarono ad arretrare, in una corsa per evitare l’accerchiamento da parte delle colonne corazzate russe che (a Sud e Nord, per decine di chilometri) tentavano di chiudere la mortale stretta intorno alle truppe italiane (nella foto: tenente della Cuneense, dall’articolo del 2014 “L’Alpino Angelo da Bardello alle nevi di Russia”). Una marcia contro le armi del nemico, contro la stanchezza sempre più devastante, pronta ad uccidete, come ricordano alcuni passi del memoriale: «All’imbrunire, sul bordo della strada si era formato un crostone di ghiaccio, quando alla mia sinistra vidi uno seduto e dalla divisa vidi che era italiano. Mi avvicinai per vedere cosa stesse facendo lì seduto, lo toccai sulla spalla ma cadde indietro e restò immobile. Capii ch’era morto congelato».

Se il 26 gennaio a Nikolaejewka è la battaglia finale, l’intera via della ritirata fu costellata di scontri, alpini e fanti che armati spesso solo di fucile e bombe a mano, combattevano contro i carri armati russi, ma anche contro gli aerei d’assalto. Le sue parole ancora oggi, a distanza di 70 anni, sono lucide nel ricordare i particoilari: «I Rata (“topi”, soprannome dei cacciabombardieri sovietici, ndr) ci sparavano dall’alto, della fila di soldati ne cadeva uno da una parte e uno dall’altra, urlavano di aiutarli ma nessuno aveva la forza di fermarsi, tutti pensavano alla propria pelle». Giuseppe Bianchi fu ferito alle mani, non dal nemico, ma dagli alleati tedeschi, a colpi di pugnale, per impedirgli di salire su un autocarro in marcia. La sua ritirata si concluse in un’ospedale di retrovia, per curare prima le ferite alle mani e poi una vecchia ferita (rimediata per colpa di una scheggia di proiettile, in autunno) infettata durante la ritirata. «M’ha salvato un carabiniere di Somma Lombardo, io ero dimagrito come… non c’era da mangiare. Dovevano rimandarci in linea, il carabiniere mi ha detto: “sembri un cadavere, ti metto io su un’auto che ti riporta a 300 km dalla linea”. Mi hanno operato e poi mi hanno mandato in Italia con il treno ospedale», racconta oggi.

Dopo quella di Russia, con l’8 settembre e l’armistizio iniziò la seconda guerra di Giuseppe Bianchi: fatto prigioniero dagli ex alleati tedeschi con il suo reparto (era passato alla contraerea) ad Alessandria, fu deportato in Germania, trasformato in schiavo di guerra del Reich, sul confine orientale. Il suo memoriale racconta con crudezza e disincanto l’orrore della prigionia nelle mani dei tedeschi, che il giovane soldato aveva conosciuto sul fronte russo. Passato da un campo con l’insegna “Arbeit macht frei“, dopo un incontro fortuito con un ufficiale tedesco reduce della Russia fu trasferito a incarichi di lavoro sì pesantissimi, ma fuori dal campo. Impegnato a Breslavia (oggi Wroclaw, Polonia: nella foto, alla fine della guerra), Bianchi finì nel mezzo della battaglia finale tra Wermacht e Armata Rossa, intrappolato tra le katyusce (i razzi russi) che fischiavano e le bombe al fosforo tedesche che bruciavano ogni cosa (il racconto del memoriale è, in questo passaggio, quanto mai vivido e potente).

Raccontando dei mesi in Germania, Bianchi racconta nel suo memoriale dei tanti compagni di prigionia: dopo la fine della guerra, in un campo di raccolta, Bianchi incontrò anche altri deportati della sua zona, ad esempio «il custode del tiro a segno di Vergiate». La via del ritorno fu lunga e difficile, tra le macerie di una guerra che aveva devastato l’Europa per 6 lunghi anni. Le macerie più dure da affrontare, il soldato Giuseppe Bianchi le trovò una volta a casa: «Scoprii cosa era accaduto a mio fratello Pietro» racconta nel memoriale. «Fu prelevato in casa alle due di notte del nove settembre ’44 dalle camice nere e poi si sentirono, nella valle, diversi colpi di sparo e non si seppe più che fine avesse fatto». Il fratello – nato nel ’26 e quindi diciottenne in età di leva nel 1944 –  era stato fucilato a Vizzola Ticino come renitente, il suo corpo bruciato sotto fascine di legno, vittima anch’egli della guerra scatenata dal regime fascista e poi portata avanti fino all’ultimo, con ogni mezzo, anche contro gli stessi italiani.

Il 2 giugno 2014, Giuseppe Bianchi, con lo sguardo mite nascosto dietro gli occhiali da vista, ha ricevuto dal prefetto di Varese la medaglia d’onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti, nel giorno della Festa della Repubblica. È stata la sua terza battaglia, questa volta in tempo di pace: la medaglia è oggi un risarcimento morale, istituito nel 2006, dopo che il governo della Germania ha respinto l’ipotesi di un risarcimento economico.

 

 

Giuseppe Bianchi è morto l’1 febbraio 2015. Il suo memoriale intitolato “Tubi di pasta”, con riferimento al cibo fornito ai soldati al fronte, è stato pubblicato nel 2017

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Pubblicato il 26 Gennaio 2015
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