Moroni: “Riscopriamo il tesoro nascosto del territorio”

Agricoltura biologica, pesce di lago, vino igt e tanti altri prodotti. Per Claudio Moroni fiduciario della condotta Slow Food di Varese bisogna riportarli sulle nostre tavole

Sguardi settembre

«Bisogna ridare valore al cibo perché dietro al cibo c’è gente che lavora». Claudio Moroni fiduciario della condotta Slow Food di Varese quando parla di cibo ha ben chiaro qual è la direzione da prendere. Se infatti da una parte aumenta nelle persone la consapevolezza dell’importanza del tema, dall’altra cucina e chef rischiano di essere risucchiati dallo show televisivo senza fine. Un condimento mediatico che coinvolge le masse e trasforma inesorabilmente il cibo in un semplice oggetto di consumo.

Moroni, che cosa è accaduto in questi anni all’universo cibo?
«Se ne parla molto e a sproposito con una polarizzazione fortissima. Organizzazioni come Slow Food hanno portato al centro dell’attenzione delle persone i contenuti, primo fra tutti il tema del consumo consapevole e responsabile, orientando i consumatori sulle caratteristiche del cibo buono, giusto e pulito. Lo show business invece ha puntato come era normale aspettarsi sugli effetti scenici, e così gli chef, un tempo semplici e sconosciuti cuochi, sono diventati un fenomeno televisivo di massa e il cibo una merce alla stregua di tutte le altre».

Slow Food non ha una vocazione commerciale, ma oggi molte delle questioni legate al cibo hanno una connotazione commerciale. Come si fa a dare un valore a un prodotto senza passare dal business?
«La sfida lanciata da Carlo Petrini è creare una consapevolezza sul cibo sganciandola da logiche prettamente commerciali. Dietro al cibo ci sono persone che lavorano, ma se i prezzi sono troppo bassi c’è qualcosa che non va: o sfrutti i lavoratori o inquini o entrambe le cose. Ecco perché è così importante ribadire le qualità di bontà, giustizia e pulizia del cibo. Queste caratteristiche contribuiscono a tutelare i territori, i valori e le culture. I 450 presidi di slow food coinvolgono più di tredicimila produttori ispirati da questi valori e se crescono e si fanno strada vuol dire che sono valori condivisi da una parte della collettività».

In questi anni si è fatto leva sul km zero come virtuoso, tanto che spesso nell’immaginario collettivo il buono, il pulito e il giusto vengono sovrapposti a quel concetto. È corretto?
«
Il km zero è interessante perché essendo vicino tu puoi visitare chi produce e quindi controllare il cibo. Tutto questo però non è sufficiente a garantire i consumatori».

In provincia di Varese c’è un’agricoltura di nicchia, quasi d’élite,  lontana dalle produzioni industriali. Che futuro ha?
«Io non la considero una cosa di élite, anzi, nel mondo circa l’80 per cento della produzione agricola è famigliare. Farei un ragionamento diverso legato alle reti perché il vero problema non sono i volumi di produzione ma la qualità della produzione. Il discorso delle reti vale anche per altri pezzi della filiera, pensiamo alla ristorazione. La Guida alle Osterie d’Italia è una rete di 1.300 ristoratori che hanno una presenza sui vari territori e scelgono personalmente i loro fornitori sulla base di parametri qualitativi ed etici. Questa non è un’élite, è la via da seguire».

Tra i nuovi agricoltori in provincia di Varese ci sono molti giovani che dimostrano una maggiore consapevolezza rispetto alla produzione biologica. È anche questo un segno dei tempi?
«La diversificazione rispetto a quello che fanno gli altri è normale, sopratutto rispetto all’agricoltura industriale. Non mi sorprende questa consapevolezza perché quando chiami un giovane produttore in genere prima di parlare della sua azienda parla del territorio e dei valori. Ci sono tentativi interessanti, come le coltivazioni di luppolo biologico per produrre birra, è uno dei tanti esempi, ma significativo».

Quali sono i cibi del territorio che secondo lei andrebbero valorizzati?
«C’è un tesoro nascosto che andrebbe riscoperto a partire dai pesci di lago, dal lavarello al persico passando per il luccio, che andrebbero utilizzati di più nei ristoranti. Sono però i ristoratori che devono proporre i menù ai clienti e non viceversa. Una valorizzazione di questa risorsa favorirebbe anche qualche passaggio generazionale tra i pescatori, soprattutto tra quelli del Verbano. E poi tutti i ristoratori dovrebbero tenere la carta dei vini di Varese, un Igt che spesso gli stranieri chiedono quando siedono a tavola. Abbiamo pochi ma buoni produttori, alcuni dei quali segnalati da Slow Wine. Bisognerebbe parlare anche dello zafferano di Gerenzano, della formaggella del Luinese e di tanti altri prodotti. È un vero tesoro».

Perché è diventato fiduciario di Slow Food?
«Ho sempre fatto l’agente di commercio nel settore dell’abbigliamento industriale e sono diventato un buongustaio in modo graduale. Per motivi di lavoro mangiavo sempre al ristorante e mi sono salvato grazie alla gola, mentre i miei colleghi a tavola  si annoiavano».

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Pubblicato il 02 Novembre 2015
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