Quando i profughi erano italiani

Le storie dei profughi sono storie che hanno spesso tratti comuni: alla fine della seconda guerra mondiale è successo, in Italia, a degli italiani. Le loro testimonianze

Le storie dei profughi hanno un tratto comune, in qualunque epoca e da qualunque paese provengano. Sono storie di persone che abbandonano la loro terra perchè costretti dai fatti o piu spesso da qualche sciagurata decisione dei potenti, e arrivano in altre dove dovrebbero trovare di nuovo la speranza, e spesso trovano solo diffidenza e rifiuto di chi è nuovo.

Alla fine della seconda guerra mondiale, c’è stato un momento in cui i profughi che venivano in Italia a cercare una nuova speranza, con la terra nel loro cuore, erano Italiani. Italiani di passaporto, di lingua, di cultura (anche se più che peninsulare, la loro era la cultura asburgica e veneziana, di certo NordEst) persone che non volevano, da un giorno all’altro, a causa di un trattato, ritrovarsi slavi, di un paese che fino all’anno prima non esisteva nemmeno sulla cartina e governato da persone che diffidavano violentemente dei cittadini di cultura italiana.

Erano i Giuliano Dalmati, gente che proveniva dall’Istria e dalla Dalmazia, aveva mentalità aperta e grande cultura, amava il mare e aveva molto da dare. Ma è rimasta in un angolo per decenni, schiacciata da un trattato che li aveva considerati poco o niente, e aveva loro tolto tutto senza restituire nemmeno l’ospitalità: abbiamo provato a farci raccontare quei tempi da alcuni di loro, trasferiti a Varese.

La cerimonia del giorno del Ricordo a Varese

Le loro testimonianze le potete trovare tutte nel video: ad esempio, Honorè Pitamitz è a Varese dal 1948, e della Dalmazia dice: «Mi manca il mare, come a tutti quanti. Ma di Zara mi manca anche la parlata veneta e  il fatto che la città avesse un livello culturale alto».

Maria, di Pola, è a Varese dal ’49, e in molti l’hanno conosciuta alla pasticceria Ghezzi, dove ha lavorato per decine d’anni. «Non tutti i parenti sono venuti in Italia, perché la Yugoslavia non a tutti ha dato il permesso per venire qui: il fratello della mia mamma aveva trent’anni e lavorava, serviva a loro e quindi non gli hanno dato il permesso di andare via».

Ma arrivare in queste zone non significava poter ricominciare serenamente una vita: «Pur essendo italiani venivamo visti con diffidenza – spiega Lucia, nata a Pirano – come se non fossimo italiani: tant’è vero che ci dicevano “ah, ma parli italiano?” “Certo che parlo italiano, io sono italiana!” rispondevo».

Mirella è stata come Lucia per un certo periodo nel campo profughi di Padriciano: uno stanzone con 96 persone, stipati in tanti letto a castello. Poi sono arrivati qui in provincia: «Siamo stati 5 anni a Ganna, innanzitutto, ma i gannesi non ci volevano, è stata un’esperienza un po’ negativa. Il paese però era piccolo, vedendo tutte queste persone posso capire cosa provassero: ma per noi è stata dura. Quando siamo andati via, però, il prete ha fatto un bel discorso: ha detto che ci siamo comportati bene, che eravamo brave persone, abbiamo avuto una bella soddisfazione. Poi siamo venuti a Varese. Ma io sento ancora molto le radici di Cittanova d’Istria dove son nata, ne sento l’aria e i profumi».

Argeo ha lasciato Pola nel 1946, qualche mese prima dell’esodo ufficiale: i genitori non volevano fare perdere a lui, ragazzino del liceo, l’anno scolastico. «Sono però capitato a Milano, in un liceo non molto accogliente: il professore di Filosofia diceva “in questa classe c’è una certa persona che dice di essere italiano e l’italiano non lo parla neanche bene”. Questo può darle un’idea dell’accoglienza che abbiamo avuto in Italia»

E pensare che, come disse all’epoca Montanelli, i Giuliano Dalmati erano “doppiamente italiani: per nascita e per scelta”. Nel trattato di pace c’era, infatti una clausola «che prevedeva che per essere considerati italiani a tutti gli effetti dovevamo optare (richiedere perciò espressamente, ndr) per la cittadinanza italiana: altrimenti saremmo stati considerati apolidi (cioè non appartenenti a nessuno stato, ndr) – spiega Argeo – Io non ho fatto il militare, per esempio, perchè quando è arrivata la cartolina di leva non avevo ancora ricevuto dalla Yoguslavia il placet per essere considerato italiano».

Anche ad Argeo manca il mare, come quasi a tutti i dalmati: «Ma mi sono mancati anche gli amici: immagini un ragazzo di 15-16 anni che si ritrova lontano da casa e lascia tutte le sue amicizie di bambino e non le ritrova più. Il mio amico del cuore sono riuscito a ritrovarlo quasi dieci anni dopo, e dopo siamo diventati testimoni di nozze l’uno dell’altro».

Per mantenere un legame tra chi, negli anni, è riuscito a riprendere le fila di una amicizia dispersa con l’esodo: «Noi ci ritroviamo ancora in un gruppo che abbiamo chiamato “L’ultima mularìa di Pola(l’ultimo gruppo di ragazzi di Pola, ndr) ogni anno, la seconda settimana di settembre, solo per fare “quatro ciacole” (cioè quattro chiacchere)».

Pier Maria Morresi, il presidente dell’associazione Giuliani e Dalmati di Varese, è arrivato in città piccolissimo, a tre anni: «I miei ricordi sono limitati a quelli di un bambino di tre anni, ma erano gli anni più duri: io ero diventato pericoloso per la mia famiglia, perchè quando vedevo sfilare gente istintivamente gridavo “viva l’Italia!” anche se non erano italiani. Questo, politicamente, non era corretto… »

Margherita, infine, è del 1921, ha un bel po’ di anni ma è in gambissima. Spiega che da Pola è arrivata a Venezia: «Dove ci hanno accolto dicendoci di tutto e di più: “porchi di fascisti, porchi di italiani, cosa venite qui a fare”. Poi fortunatamente siamo stati accolti da amici a Padova, abbiamo aperto con i genitori un negozio di drogheria a Venezia. Quando ho trovato mio marito, lui lavorava all’Aermacchi e ci siamo di nuovo trasferiti, qui a Varese. Ma quasi nessuno sapeva di noi, non sapevano cosa avevamo passato. Sono stati giorni tristi».

Stefania Radman
stefania.radman@varesenews.it

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Pubblicato il 18 Febbraio 2016
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