Alcune considerazioni sugli sprechi alimentari

Dopo l'incontro alla festa dell'Unità di venerdì scorso l'agronomo Valerio Montonati fa una riflessione sul tema degli sprechi alimentari: 2Occorre un cambiamento di paradigma"

spreco alimentare

Venerdì sera ho partecipato all’incontro, organizzato dal PD varesino, sulla proposta di legge, in corso di approvazione, firmata dalla Deputata del PD della provincia di Varese Maria Chiara Gadda, sugli sprechi alimentari.

Presente la stessa Deputata, oltre al neo sindaco di Varese Davide Galimberti, l’incontro è stato moderato da Dino De Simone, neo consigliere comunale di Varese, con la partecipazione di rappresentanti di spicco della Caritas Ambrosiana e della CNA.

Pubblico questo commento non essendoci stato il tempo materiale di dare un contributo al dibattito in loco in quanto, da tecnico del settore, non sarei riuscito a contenermi nei due minuti messi a disposizione dal moderatore.

In prima istanza debbo dire che una legge su questo argomento è senz’altro da giudicare encomiabile e condivisibile.

Dopo la presentazione del provvedimento da parte dell’Onorevole Gadda che, tra l’altro, ha citato i contributi di vari istituti di ricerca sulle percentuali di spreco da attribuirsi alle varie tappe seguite dai prodotti alimentari: dalla produzione, alla trasformazione, alla distribuzione, al consumo collettivo ed al consumo/spreco finale domestico.

Il dibattito, come era logico attendersi, si è via via indirizzato sul tema della povertà dilagante unitamente al fenomeno dell’ immigrazione di massa che interessa il mondo occidentale.

Desidero, pertanto, proporre alcune riflessioni sul tema ponendo in particolare l’accento, da agronomo, sul momento della produzione delle derrate alimentari negli aspetti tecnico-produttivi ed in quelli economici, mentre da cittadino e padre di famiglia, vi propongo una considerazione sul fenomeno dello spreco finale “intra moenia”.

Premesso che il sottoscritto ha frequentato la facoltà di Scienze Agrarie in un momento storico di passaggio tra la cultura del “produrre e poi produrre” a quella della produzione di qualità salvaguardando l’ambiente, tengo a precisare quanto segue :

1) la cultura del produrre, che ha causato fenomeni senz’altro deprecabili come le storiche immagini di montagne frutta ed ortaggi (ricordo arance, pesche e pomodori) schiacciate  dalle pale dei cingolati, o prodotti zootecnici ammassati in grandi quantità e, comunque, agati dalla collettività europea, consegue, da una parte dalla memoria della fame che ha attanagliato gran parte dell’emisfero nord dalla fine dell’impero romano fino all’ultimo dopoguerra e dall’altra dalle scoperte scientifiche (selezione genetica, ibridazione, invenzione di pesticidi potenti, nuovi concimi di sintesi) che, unitamente alla meccanizzazione spinta ed alle nuove disponibilità energetiche, hanno permesso di moltiplicare parecchie volte le produzioni unitarie permettendo alle più recenti generazioni (dagli anni cinquanta in avanti) di crescere con la “pancia piena”;

2) il progressivo deterioramento dell’ambiente (drastico impoverimento della biodiversità, apporti eccessivi di nutrienti all’ambiente, banalizzazione del paesaggio, deforestazione selvaggia, crisi degli stockes ittici) e l’incremento di talune patologie collegate all’alimentazione, hanno via via indirizzato l’agricoltura (almeno quella italiana, ma sempre in una condizione generale di appetito sempre soddisfatto) verso obiettivi di qualità piuttosto che privilegiare ancora la quantità;

3) a quelle scene devastanti di distruzione delle derrate alimentari, quando già alcune popolazioni africane lamentando crisi alimentari dovute alla siccità o alla guerra (ricordo il caso dell’effimera Repubblica del Biafra), ma ancora ben lontane dalla gravissima situazione attuale, invocavano aiuto dall’occidente ormai ricco e “grasso”, oggi si contrappone, sempre più spesso, lo scenario, altrettanto sconvolgente, di campagne colme di frutti lasciati a marcire a causa dei costi di raccolta antieconomici.

Burattinaio di questi scempi è sempre lo stesso, il così detto “mercato”, impegnato ora come allora a mantenere dinamiche di compravendita e prezzi al dettaglio ad esclusivo favore di mercanti, industriali e commercio organizzato ed a discapito di chi produce con grande rischio e sacrificio e di consuma dovendo fare i conti con risorse economiche sempre più risicate.

Il concetto economico di fondo non cambia, paghino i produttori ed i consumatori e, con loro, l’ambiente : le ultime risorse forestali, la fertilità delle terre coltivate, la disponibilità di acqua dolce.

Questa economia di mercato fondata sulla ricerca del profitto spinta alle estreme conseguenze, oltre che mettere in crisi sistemi agricoli millenari (si pensi ai 30 centesimi / lt circa riconosciuti ai nostri produttori di latte quando il consumatore deve sborsare anche 1,50 euro / lt) col grave rischio di ulteriori scomparse di aziende agricole che, tra l’altro, mantengono il presidio del territorio (quello di pianura poiché collina e montagna sono ormai all’abbandono da decenni), non potrà che aumentare sempre più il divario fra ricchi e poveri concentrando il numero dei primi ed allargando senza fine quello dei secondi.

Ripensando alle percentuali di spreco assegnate ai vari comparti, che non voglio commentare in dettaglio per non dover scrivere un trattato, spicca quel 49% c.a. assegnato alle famiglie come sprecone finali.

Devo essere sincero, questo dato mi convince poco ed in proposito vi propongo questo confronto: se prendessimo un campione di 100 famiglie scelto tra tutte le fasce sociali, con le loro dinamiche di 10 anni fa, e lo comparassimo ad un ugual campione all’attualità, sono certo che quel dato potrebbe essere facilmente applicato al decennio passato mentre oggi troveremmo, oltre ad alcuni frigoriferi spenti (neanche più il frigorifero e l’appartamento che lo conteneva, in certi casi), sempre più “frigidaire” con ampi spazi vuoti anche presso famiglie che non abbiano subito la catastrofe della perdita del lavoro ma sempre più vittime di un contesto economico che continua a “pompare” soldi a chi ne ha già in abbondanza (eppure anch’essi mangiano non più che tre/quattro volte al giorno e portano un solo paio di scarpe alla volta) alla faccia del sistema che lamenta quotidianamente la stagnazione degli acquisti ignorando le esigenze economiche dei più .

Se non cambiamo realmente “paradigma”, ovvero il modo distribuire la ricchezza e di coniugare le leggi economiche con gli ecosistemi sociale e terrestre avremo certo meno cibo in spazzatura ma file di uomini, donne e bambini sempre più numerose alle mense caritatevoli e masse di persone disperate sempre più consistenti ai confini europei.

Qualcosa del genere è capitato intorno al 476 d.c. e così terminò un impero cui ancor oggi si rifàvl’intera cultura occidentale, meditiamo gente ed agiamo di conseguenza.

Valerio Montonati – Agronomo

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 05 Luglio 2016
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