La solitudine ingiusta del pm Abate

Pierfausto Vedani sul caso Lidia Macchi: "I processi poteva anche perderli, ma certamente li studiava a fondo"

agostino abate

In tutti, nessuno escluso, c’è una macchina in grado di riportarci fulmineamente indietro nel tempo, con successo e con intensità di stimoli e ricordi a seconda delle situazioni che hanno avviato il tuffo nel passato.

Questa macchina puntualmente mi fa rivivere l’epoca della mia formazione professionale ogni volta che le cronache si occupano di possibili errori giudiziari, di veleni, di sorprese dopo nuove indagini relative a un delitto rimasto impunito.

Sono convinto che il mio ritorno al passato avvenga perché legato alle mie prime esperienze di cronista giudiziario durante le quali, nel pieno rispetto della legge e dei ruoli, furono per me preziosi conoscenza e buoni rapporti con un giovane magistrato, da poco nominato sostituto procuratore della Repubblica a Como, il dott. Del Franco.

Eravamo entrambi agli esordi, il magistrato veniva dalla pretura di Avellino, io debuttavo in un “mercato” molto difficile perché limitatissimo – quello dei giornalisti professionisti – dopo aver rinunciato a terminare a Milano giurisprudenza, laurea con sbocchi in prospettiva ben più remunerativi.

Il magistrato Del Franco considerava qualsiasi processo affidatogli dai suoi superiori come un esame di maturità professionale: lo studiava a fondo, cominciando con una verifica che avrebbe ripetuto anche prima della eventuale richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato: c’erano convincenti elementi di valutazione favorevoli alla difesa?

Di magistrati scrupolosi ne avrei incontrati in gran numero durante la mia attività ed è accaduto anche a Varese, dove il servizio alla comunità da parte di chi amministra la giustizia ha sempre avuto connotazioni da culto. Faccio un solo nome per ringraziare tutti i magistrati che ho conosciuto.
Transitando davanti all’ ufficio del dott. Vigna mi capitò di udire una lunga, veloce, rumorosa “sparata” di una vecchia macchina per scrivere. “Bravo il presidente Vigna che ha trovato un dattilografo super!”, commentai, salvo poi venire a sapere dopo qualche giorno che il dattilografo- mitragliere era lo stesso giudice, anzi il numero 1 dei magistrati di piazza Cacciatori delle Alpi, in azione anche nella tarda mattinata di un sabato.

Con grande sorpresa e in un ben diverso quadro giudiziario – l’assassinio di Lidia Macchi – in giorni in cui mi hanno aggredito con azione congiunta età e mali stagionali ho letto di un Agostino Abate, il pm dell’inchiesta, collezionista di errori che avrebbero impedito sino a poco tempo fa di chiudere un caso irrisolto da 30 anni.

Giuridicamente, ma non solo, sono il signor nessuno, devo inoltre per principio e, come ho sempre fatto, il massimo rispetto a uomini di legge di grande cultura e pari storia personale, ma mi hanno colpito il silenzio e la solitudine di un magistrato che ho visto per anni indagare, confrontare, rivedere con una determinazione eccezionale pagine di una vicenda dolorosa che ci ha colpiti tutti, profondamente.

E tutti sino a oggi ci ha visti perdenti ma senza aver mai issato bandiera bianca.

Non ho rapporti con il dott. Abate: senza entrare nel merito della vicenda, credo sia doveroso ricordarne impegno e dedizione protrattisi nel tempo perché il martirio di una giovane abbia fine o non possa originare nuovi strazi.

E’ di conforto al vecchio pirata– ma sì, mi piace l’idea di essere un Long John Silver delle cronache bosine – la silenziosa ma importante adesione morale di colleghi giovani alle mie piccole, modeste certezze. Nate dalle stesse sensazioni che provavo durante i colloqui con il mio primo vero maestro di diritto.
Mario Del Franco sarebbe diventato un procuratore della Repubblica a Como ancora dopo anni ricordato con enorme stima. Perché i processi poteva anche perderli, ma certamente li studiava a fondo, nei minimi dettagli. Come Agostino Abate.

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Pubblicato il 16 Gennaio 2017
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