La scomparsa dei piccoli allevamenti zootecnici

L’intervento dell’agronomo Valerio Montanti che prosegue l’excursus su come è cambiata l’economia rurale della nostra provincia

la scomparsa dei piccoli allevamenti zootecnici

Pubblichiamo l’intervento dell’agronomo Valerio Montonati che prosegue l’excursus su come è cambiata l’economia rurale della nostra provincia.

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Il tema “Allevamenti zootecnici”, avviato da questa testata con l’intervista a Cristian, pastore dedito alla transumanza estiva sulle montagne del Luinese, proseguito dal sottoscritto con un excursus sul rapido imboschimento dei pascoli abbandonati dalla pratica dell’alpeggio (detta anche monticazione) e da alcune considerazioni sulla gestione economica del gregge ovi-caprino, mi porta ora a proporvi alcune considerazioni circa la scomparsa dei piccoli o piccolissimi allevamenti zootecnici una volta presenti capillarmente e perfino diffusi nel territorio della nostra città e le conseguenze pagate dal territorio.

Provo a proporvi un fermo immagine del primissimo ultimo dopo guerra, diciamo intorno al 1950. Sarà necessariamente un esercizio di fantasia, essendo il sottoscritto del ’60, fondato su testimonianze di persone, di edifici ancora esistenti, su vaghi ricordi della fanciullezza e della adolescenza filtrati ora dall’occhio dell’agronomo.

Dividerei gli ambienti esaminati in aree montane, pianure ed ambienti urbanizzati, per comodità di esposizione anche in relazione a particolari problematiche che caratterizzano la risposta di ciascuna delle tipologie territoriali indicate alla eclissi delle piccole stalle.

In quell’epoca e per un ulteriore breve periodo, le nostre montagne erano ancora interessate da una diffusa presenza di aziende zootecniche locali ovvero dal fenomeno della transumanza che vedeva perfino aziende della pianura milanese portare le proprie vacche al pascolo durante la stagione estiva al termine della quale, con il ritorno delle bestie ormai “stracche” per il cammino, si produceva, con il poco latte prodotto, lo stracchino ovvero il famoso formaggio milanese a pasta molle fatto, almeno nella tradizione, con latte crudo.

La zona del Lema, in realtà, subì un abbandono repentino se già negli anni ’50 fu costituita una apposita società denominata “Rinascita Montana” con l’obiettivo, ritengo, di frenare l’esodo degli agricoltori se non rilanciarne l’attività in loco, insieme all’attuazione di una massiccia forestazione con varie specie di conifere al fine di prevenire immediatamente probabili fenomeni di dissesto accanto a fantastici sogni di rapide e cospicue produzioni legnose.

L’abbandono generalizzato della zootecnia di montagna con piccole e numerose stalle dislocate in ogni paese, per lo più completate da omologhi ricoveri in baita sugli alpeggi, comportò l’avvio della spontanea ri-colonizzazione del pascolo da parte del bosco (come già ho spiegato in un video) ed il graduale distacco dalle pratiche silvane : dalla periodica ceduazione dei boschi alla raccolta dello strame così prezioso come lettiera prima e come prodigioso fertilizzante organico in seguito (quel letame magico “ricostituente” del terreno agrario), alla carbonizzazione in bosco, alla coltivazione delle selve castanili che fungevano da corollario ai pascoli garantendo prodotti secondari importanti come castagne e noci).

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Quella dipartita determinò inoltre la progressiva assenza della manutenzione degli edifici rurali (baite, stalle, crotti, sorgenti protette, grà, etc.), della metodica gestione dei versanti con i terrazzamenti retti da chilometri di muri a secco, la graduale ed inesorabile trascuratezza dei manufatti che garantivano la regimazione delle acque e la generale incuria del territorio con l’innesco di fenomeni franosi insieme a repentino accorciamento dei tempi di corrivazione della acque da monte a valle con i conseguenti noti fenomeni di straripamento.

In generale si deve riconoscere, in quell’evento che si protrasse per diversi lustri, la graduale dismissione di un organizzato e puntuale sistema di gestione della montagna e delle sue asprezze realizzato nei secoli con le immani fatiche di intere generazioni di genti delle montagne cresciute ed invecchiate in un ambiente, sì incontaminato, ma inesorabilmente in balia della quotidiana fatica, della frequente fame, del freddo che attanagliava le loro membra nelle lunghe notti invernali.

Rispetto agli ambienti di pianura, siano essi i nostri fondo valle o la più ampia pianura padana propongo una rapida riflessione per poi concludere con il caso delle aree urbanizzate in un successivo articolo conclusivo con cui vorrei richiamare la tradizione della produzione agricola a chilometro zero.
Le nostre pianure hanno visto progressivamente chiudere le piccole e le medie realtà zootecniche, le classiche stalle e stallette con poche o pichissime vacche da latte, per intenderci, in favore di aziende via via più grandi per problemi essenzialmente collegati alle così dette economie di scala (correlazione tra dimensione produttiva e costo di produzione) ed in relazione alle dinamiche del prezzo di mercato del latte ancor oggi in primo piano come gravissimo fattore di rischio circa la sopravvivenza delle aziende superstiti a loro volta già esito di una selezione tanto spietata quanto dannosa per il costante e capillare presidio del territorio e della sua manutenzione.

Faccio un unico esempio senza dilungarmi sull’argomento economico specifico (su cui tornerò in altra occasione) commentando solo, anche a fronte del recentissimo scandalo delle importazioni massicce di cereali (solo in parte giustificate da una insufficiente produzione interna) che stanno uccidendo un altro comparto essenziale della nostra agricoltura, che l’agricoltura per un paese è un elemento strategico cui non si può rinunciare, costi quel che costi, sia per garantire comunque ed in ogni caso una capacità di auto produzione alimentare sia per garantire la custodia e la difesa del territorio.

Il problema che desidero proporvi è quello della progressiva diminuzione di aziende agricole zootecniche per unità di misura del territorio (diciamo poche decine di chilometri quadrati) e la capacità di mantenimento della fertilità dei suoli.

Con la presenza storica di migliaia di aziende e la diffusa disponibilità di ingenti quantità di letame, non era certo un problema distribuirlo omogeneamente garantendo ai terreni agrari adeguati apporti di nutrienti insieme a tutte quelle sostanze colloidali (acidi humici e acidi fulvici, per esempio) che garantiscono il mantenimento/miglioramento delle proprietà fisiche del terreno come : struttura, permeabilità, capacità di ritenzione idrica, sofficità, etc.

La drastica riduzione della aziende presenti sul territorio e gli ingenti costi per trasportare la preziosa sostanza organica (il fecondo letame) nelle campagne più lontane dal centro aziendale stanno determinando gravi problemi: nei fondo valle, ad esempio, è praticamente scomparsa l’agricoltura (essendo questa imperniata sulla zootecnia) ed i prati superstiti dall’incessante edificazione (vedesi i casi di Val Cuvia e Val Marchirolo con l’ultimo, emblematico, scempio del centro commerciale costruito sul ciglio della valle dell’ ”Argentera”) nelle pianure, adatte alla cerealicoltura e ad altre colture specializzate, si registrano gravi problemi circa il buon mantenimento dei suoli agrari con episodi sempre più frequenti di terreni sterili facilmente soggetti all’inaridimento ed alla erosione.

Valerio Montonati

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 22 Febbraio 2017
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