Gli economisti hanno dimenticato la felicità pubblica

C'è un nuovo Umanesimo che si fa strada tra gli economisti. Stefano Zamagni, professore di economia politica all'università di Bologna, parla di felicità pubblica. La sua Scuola di economia civile terrà un corso a Varese

stefano zamagni

«Maledetti economisti». Stefano Zamagni lo ripete più volte. Non lo dice con cattiveria, quanto piuttosto con tono severo e umile allo stesso tempo. D’altronde anche lui appartiene alla categoria degli economisti ma a differenza di buona parte dei colleghi ha il coraggio di cantare fuori dal coro e proporre una visione del mondo diversa, basata sul concetto di felicità pubblica. Zamagni, che insegna economia all’università di Bologna, è stato coerente con il suo pensiero e fondando la Scuola di economia civile (Sec) insieme ad altri importanti economisti tra cui il compianto Pierluigi Porta, Luigino Bruni, Leonardo Becchetti e Renato Ruffini, solo per citarne alcuni, sta contribuendo a cambiare il modello culturale che informa l’economia. A maggio di quest’anno anche Varese, grazie all’iniziativa di alcune associazioni del territorio, ospiterà un corso della Sec. 

Professor Zamagni, parlare di felicità pubblica oggi è un paradosso?
«Potrebbe sembrarlo, ma non è così. Questa categoria a un certo punto è stata scartata dal nostro lessico e ce ne siamo dimenticati in fretta nonostante i libri degli economisti italiani del ‘700 avessero come sottotitolo “della felicità pubblica” perché è un concetto che fa parte dell’economia. Dalla fine del ’700 in poi gli economisti fanno coincidere la felicità con l’utilità, una mistificazione. Secondo Bentham massimizzando l’utilità si otteneva la felicità. L’utilità però soddisfa i bisogni, mentre la felicità è molto di più perché ha a che fare con il riconoscimento. Per essere felici bisogna essere in due, mentre l’avaro massimizza stando da solo. Il risultato è stato che per due secoli la categoria della felicità pubblica è stata dimenticata al punto che fino a trent’anni fa se qualcuno scriveva “economia civile”, veniva subito corretto con “economia civica”».

Che cosa altro hanno dimenticato gli economisti?
«Con gli anni abbiamo stupidamente dimenticato il bene comune, concetto antichissimo. Eppure oggi non esiste una teoria compiuta sui beni comuni come se il tema di come si gestisce l’aria, il territorio e  l’acqua, per fare degli esempi, non ci riguardasse. Ci sono delle aree, come il Trentino Alto Adige, dove la gestione dei boschi è comunitaria. Oppure pensiamo alla lex mercatoria pensata e fatta dagli stessi mercanti per regolare gli spazi comuni. I beni comuni fanno parte della nostra vita e concorrono alla felicità pubblica».

Perché gli economisti continuano sulla vecchia strada?
«Perché sono dei testoni che perseverano per interessi di carriera accademica e quindi non si cimentano con il nuovo, continuando a confondere l’economia di mercato con il capitalismo, quest’ultimo è solo un modello dell’economia di mercato. Un errore che fu di Marx che tra l’altro non conosceva l’italiano. Questo è un particolare che ha un suo peso perché i più grandi economisti prima di Smith erano tutti francescani».

Come fa un’economia vecchia di quasi due secoli come quella del Varesotto ad affrontare serenamente un presente che oscilla tra i concetti di industria 4.0 e felicità pubblica?
«Il vostro è un tessuto imprenditoriale ricco di storia e florido anche in momenti in cui altri territori non lo erano. Gli imprenditori in questo momento devono avere l’umiltà di fare un passo indietro e ridefinire il loro modo di stare al mondo con un sovrappiù di etica e compassione. Devono cercare alleanze forti ed etiche con la pubblica amministrazione e il terzo settore. Quello che manca oggi non sono le risorse ma un atto di acculturazione che muova un sogno. La crisi ha aiutato a far prendere consapevolezza che il paradigma individualista non è più adeguato. Quando parliamo di secondo Umanesimo, non parliamo di macchine o robot ma parliamo di persone e poiché la civitas è fatta di anime le imprese civili devono includere, generare valore e lavoro. Il secondo Umanesimo segna il passaggio dalla società moderna a quella post-moderna e noi italiani abbiamo un ruolo fondamentale in questa fase perché abbiamo dato vita al primo umanesimo».

Il conflitto è dunque sulla direzione da prendere?
«Sì, è su questo punto che c’è disaccordo tra gli economisti. Iniziano a esserci sempre più giovani colleghi che sposano il nuovo pensiero anche se tutto questo gli rende la vita accademica molto difficile. Tra gli studenti migliori ci sono proprio quelli che si occupano di economia civile, finanza etica e sostenibilità. Poi il sistema tende a relegarli in ruoli di marginalità perché li considera controcorrente, fuori dal coro. Un errore grave perché il nuovo Umanesimo è già iniziato. È solo questione di tempo e come dice Luigino Bruni: felicità sarà la quarta parola che si aggiunge a uguaglianza, fraternità e libertà».

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Pubblicato il 28 Aprile 2017
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