Lidia Macchi, sotto accusa finisce l’indagine del 1987

La madre della ragazza uccisa sarà ascoltata nella prossima udienza, ma buona parte del dibattimento punta a evidenziare i fallimenti della prima inchiesta

Paola Bettoni, madre Lidia Macchi

Doveva essere il giorno della madre, Paola Bettoni, al processo per la morte di Lidia Macchi ma l’audizione della donna è stata rinviata. Troppo lunghe le prime deposizioni della mattina, come quella dell’ex capo della squadra mobile Giorgio Paolillo (nel 1987 era lui che comandava gli agenti) e quella di un altro capo della mobile, Sebastiano Bartolotta, ascoltato in merito ai presunti ostacoli che il pm Agostino Abate frappose alla polizia e allo Sco di Roma per la riapertura del caso nel 2009.

La madre della vittima, Paola Bettoni, sarà ascoltata nella prossima udienza; si tratta di una testimonianza importante ma anche di una manifestazione di sensibilità da parte della corte d’assise presieduta dal giudice Orazio Muscato e dell’accusa. Paola Bettoni ha manifestato l’intenzione di seguire tutto il dibattimento in aula ma i testimoni non possono presenziare alle udienze prima della propria deposizione.

I FALDONI SCOMPARSI E RITROVATI

Oggi in aula è emersa un’altra stranezza sulle indagini condotte all’epoca, dopo l’incredibile distruzione dei vetrini con il liquido seminale dell’uomo che ebbe un rapporto con la vittima prima del delitto; reperti conservati dopo l’autopsia del 1987 ma distrutti dal gip di Varese nel 2000.

Sono infatti state rinvenute alcune attività di indagine su quattro amici della vittima, condotte all’epoca, di cui si erano perse le tracce nel 1991. Tra queste vi sono anche intercettazioni e perquisizioni anche a carico di don Giuseppe Sotgiu, l’amico di Stefano Binda che all’epoca venne indagato e che l’ex poliziotto Paolillo ha detto essere stato per qualche tempo, nel 1987, uno dei principali indiziati (ma è stato poi scagionato).

I fascicoli erano in un vecchio registro delle notizie di reato del 1991, posizionati sotto una pila di carte in procura e indivati da un post it di colore giallo.

Durante l’udienza, l’allora capo della squadra mobile Giorgio Paolillo ha ricostruito cosa accadde nei giorni del ritrovamento del cavadere a Cittiglio e come si svolsero le prime indagini del 1987.

I TRE AMICI PER LA PELLE

Il poliziotto ha spiegato che una parte delle indagini, nel febbraio del 1987, si indirizzò verso i tre amici di Brebbia che sembravano avere un legame con Lidia: Giuseppe Sotgiu e Piergiorgio Bertoldi (divenuti sacerdoti) e Stefano Binda. Ma era Sotgiu il giovane su cui avevano puntato gli occhi, salvo poi cambiare pista qualche mese dopo, quando una notte di giugno fermarono alcuni sacerdoti che avevano dato una versione sospetta sulla presenza di un loro collega a una riunione pastorale a san Vittore di Varese. Ne nacque uno scandalo, la curia accusò il pm Abate e il dirigente Paolillo di aver sequestrato i religiosi, ci furono interrogazioni parlamentari e inchieste che finirono in niente.

Paolillo ha anche rivelato una cicostanza curiosa e cioè che in quel periodo gli inquirenti fecero anche disporre intercettazioni telefoniche nella segreteria del Cardinal Martini a Milano.

Il vicequestore Sebastiano Bartolotta ha invece raccontato che il servizio centrale della polizia di stato, nel 2009, voleva riaprire il caso ma che il pm Agostino Abate non gli disse mai dove erano conservati i famosi vetrini con il liquido seminale che lo Sco voleva analizzare. In realtà erano stati distrutti dal gip già nel 2000. Altra curiosità, il magistrato che firmò allora in buona fede quell’ordine di distruzione dei reperti , Ottavio D’agostino, si è presentato in aula come privato cittadino per assistere all’udienza, ma gli è stato consigliato di non entrare poichè potrebbe essere ascoltato come teste.

Roberto Rotondo
roberto.rotondo@varesenews.it
Pubblicato il 28 Aprile 2017
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