Lidia, nessun indizio dagli scavi nel parco

Nessun oggetto utile rinvenuto a Masnago, è passato troppo tempo. I test genetici sugli oggetti dell'auto di Lidia e sulla busta non hanno fornito indicazioni

Parco Mantegazza sequestrato, si cerca l'arma del delitto Lidia Macchi

I test genetici su tutti i reperti rinvenuti nella scena del delitto, o sequestrati all’imputato, o ancora ricercati con la campagna di scavi al parco di Masnago, hanno dato esito negativo.

(nella foto, la campagna di scavi al Parco di Masnago, Varese)

Lindagine sulla morte di Lidia Macchi, nonostante lo sforzo enorme profuso, non ha fino a questo momento ottenuto risultati dalle consulenze disposte dalla procura generale di Milano alla ricerca di un prova scientifica. La speranza è che qualche indicazione arrivi dalla riesumazione della salma o dai vetrini stranamente ritrovati solo di recente. O ancora dal lembo di pelle del corpo della vittima conservato a Pavia.

Certo, se il tribunale di Varese non avesse distrutto i vetrini con il liquido seminale prelevato durante l’autopsia sul corpo della vittima, oggi staremmo parlando d’altro, e la domanda del presidente della corte d’assise Orazio Muscato ai consulenti ieri in aula è stata chiara: con quei vetrini avreste capito se il dna dell’imputato era compatibile? “Sì, e con assoluta certezza” ha risposto il professor Roberto Giuffrida. I consulenti che hanno analizzato il dna dei reperti, dunque, hanno potuto solo fare delle esclusioni.

Stefano Binda non è la persona che ha leccato i lembi della busta della lettera anonima giunta ai genitori di Lidia Macchi. Chi ha leccato la busta, tuttavia, è un uomo: i consulenti hanno poi confrontato quei lembi con il tampone salivare di altre persone. Non c’entrano nulla nemmeno gli amici dell’epoca di Binda, Piergiorgio Bertoldi, Giuseppe Sotgiu e nemmeno i parenti di Binda o ancora i genitori di Fulvio Luzzardi, analizzati per capire se per caso il “leccatore” fosse Fulvio Luzzardi, l’amico morto di overdose. Il presunto complice non è nessun altro di quelli tipizzati. E nemmeno di altri personaggi della storia come Bechis o Don Fabio Baroncini, Patrizia Bianchi o Don Antonio Costabile. E’ probabile che si farà un nuovo tentativo di confronto con la banca dati nazionale del dna, che tuttavia contiene oggi solo 1000 profili.

Le immagini del processo Lidia Macchi

Dentro la vettura di Lidia vi era del sangue della vittima, poco, e c’era anche un limitatissimo profilo genetico maschile attribuibile al padre della vittima Giorgio Macchi. Vi erano anche dei fazzoletti con il profilo del fratello di Lidia, all’epoca lattante. E uno stuzzicadente con il profilo della madre. Sulla scena del delitto vi erano due siringhe rinvenute all‘epoca. Una aveva il profilo sanguigno A Rh positivo, lo stesso di Lidia, ma il professore ha chiarito che moltissime persone in Italia hanno quel medesimo profilo.

I consulenti hanno dovuto anche ammettere che gli scavi nel parco di Masnago non hanno portato alcun risultato. Il professor Giuffrida ha aggiunto che la probabilità di trovare un profilo genetico intatto era di una su “un milione di miliardi”, poiché il dna si sfalda a causa dell’umidità già dopo pochi giorni ed è per questo che in laboratorio viene strisciato ed essiccato; nella migliore delle ipotesi viene conservato a meno venti gradi sotto zero. Il Reggimento Genio guastatori “Cremona” dell’esercito ha rinvenuto coltelli, suppellettili e altri oggetti, ma nulla che riconducesse all’arma del delitto (che ieri in aula il medico legale Mario Tavani ha sostenuto essere un coltellino Opinel).

In quel parco, va detto, si è scavato perché la testimone Patrizia Bianchi ha affermato che Stefano Binda, un giorno, poco dopo l’omicidio, scese dall’auto e vi si recò per gettare un sacchetto di cartone. Qualche anno dopo, il primo fidanzato della Bianchi, Pietro Catania, dopo aver appreso all’università che Binda si drogava, disse a Patrizia che in quel sacchetto avrebbe potuto esserci l’arma del delitto. Un suggerimento che successivamente le fece notare anche il marito, e che la Bianchi ritenne valido. Ma solo dopo molti anni decise di riferirlo alla polizia.

Roberto Rotondo
roberto.rotondo@varesenews.it
Pubblicato il 20 Luglio 2017
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