“Noi che abbiamo parlato coi migranti vi diciamo di non aver paura”

Un gruppo di 20 ragazzi di Stoà organizza da un paio d'anni un doposcuola per i richiedenti asilo di via dei Mille. La loro posizione sulle polemiche di questi giorni attorno al centro di accoglienza

scuola serale

Con un pomeriggio di attività e condivisione presso l’oratorio San Luigi di Busto Arsizio si è conclusa sabato 1 luglio – ma solo per la pausa estiva – l’esperienza di ITAcA, doposcuola creato e gestito da un gruppo di giovani volontari della città di Busto e dintorni.

ITAcA (ITAliano che Accoglie) è un’esperienza di servizio nata nell’ottobre del 2015, dopo che il diacono di Busto Arsizio, Francesco Nicastro, ha suggerito ad alcuni giovani che prestano servizio al Centro di pastorale giovanile Stoà, di pensare a qualcosa che potesse coinvolgere i numerosi ragazzi ospitati nel centro di accoglienza straordinaria di Via dei Mille.

Da quel suggerimento è nata l’intuizione di proporre un doposcuola di italiano, che andasse a potenziare ciò che i ragazzi avrebbero appreso durante i corsi del CPIA, e che soprattutto creasse un’occasione di socializzazione e d’integrazione. «In un clima teso come quello di queste settimane – spiegano i ragazzi di Itaca –  sembra quasi fuori luogo accennare a delle esperienze positive, ma proprio per questo abbiamo deciso di condividere il nostro particolare punto di vista sulla questione».

Il tema dei migranti è certamente complesso, ma «non per questo possiamo continuare a fare finta che non ci riguardi, o peggio, non possiamo permetterci di liquidarlo offrendo la parte peggiore di noi – proseguono i giovani di Stoà -, quella che si lascia guidare dalla paura o dall’idea subdola che “noi abbiamo diritto di vivere in maniera più dignitosa di loro” come se la fame o la guerra un ventenne africano che ha lasciato la propria terra e che si trova a passare da Busto se li sia meritati. Quando si parla di esseri umani, non possono esistere gradi di priorità o importanza».

Sono i ragazzi della generazione definita dei “senza futuro” che hanno deciso di mettersi a servizio dei loro coetanei, in maniera gratuita e volontaria, per dire che qualcosa di buono, in ogni circostanza, può e deve sempre essere fatto: «Noi, che con questi giovani abbiamo avuto la fortuna di passare del tempo in questi due anni, possiamo assicurare che non c’è nulla di cui aver paura, che non abbiamo nulla da perdere nel farli sentire parte di questa città, che certo sono tempi difficili per tutti, ma una cosa non esclude l’altra: lavorare per loro equivale a lavorare per la propria città e per i propri cittadini».

Il Leitmotiv sui social quando si parla dell’argomento è diventato “A Busto non si passa”: «A Busto non si passa, si sta – rispondono i ragazzi -. Loro stanno qui da diversi mesi, se non anni e resteranno qui per altrettanto tempo. Il loro non è un passaggio di breve durata. Questo elemento non può passare in secondo piano».

Dietro il progetto Itaca c’è un’idea di città «in cui si possa lavorare in maniera sinergica, onesta e trasparente sulla questione. In cui al centro venga messa innanzitutto la dignità delle persone di cui si sta parlando. Quanto più ciascuno farà la propria parte, secondo la responsabilità e il ruolo che ricopre, in ottica costruttiva e lungimirante, tanto meglio avrà lavorato per i propri cittadini».

Da un solo gruppo di 20 volontari, che fa tutt’altro nella vita, e da un’ idea nata quasi due anni fa di strada ne è stata fatta e ne rivendicano i risultati: «Al servizio del doposcuola, da quest’anno rivolto anche a tutti gli altri richiedenti asilo della città, sono state aggiunte serate di approfondimento legate al tema dell’immigrazione offerte alla cittadinanza, un laboratorio di fotografia proposto ai ragazzi l’anno scorso per mettere in primo piano loro e le loro storie e un laboratorio di teatro creato quest’anno, e ancora in corso, per raccontare, attraverso la storia universale di Telemaco nell’Odissea, il viaggio intrapreso da ciascuno di loro e, in fondo, da ciascuno di noi».

Piccola postilla riguardo alla carta d’identità e all’esperienza vissuta con i richiedenti asilo: «Durante le lezioni che facevamo con i ragazzi, ogni volta che usciva la parola magica “carta d’identità” era sempre associata alla parola “lavoro” da parte loro. Per loro, infatti, carta d’identità equivale alla possibilità di uscire una volta per tutte dallo stallo in cui sono costretti a vivere. Vuol dire desiderare l’autonomia attraverso la ricerca di un lavoro, per riprendere una vita che si è interrotta. È il loro modo per affermare la loro presenza in una città che spesso preferisce fare finta di non vederli, è un diritto che per alcuni di loro è già promessa di responsabilità».

Orlando Mastrillo
orlando.mastrillo@varesenews.it

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Pubblicato il 05 Luglio 2017
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