La rapina di via Osoppo, il giorno in cui Milano entrò nella modernità

Era il 27 febbraio del 1958, durò tre minuti e non fece vittime: l'azione audace ispirò un celebre film e suscitò anche simpatia, in un'Italia molto diversa da oggi e arrivata a un punto di svolta

mostra Mala Milano

«L’incubo è finito» titolarono i giornali, quando la polizia catturò i banditi. Anche se la rapina non aveva fatto feriti veri, anche se l’azione solo dieci anni dopo – quando le rapine si facevano sparando e ammazzando – sarebbe sembrata un gioco da ragazzini, un colpo da banditi romantici.

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A Milano c’è uno spartiacque nella storia del crimine: il 27 febbraio 1958, il giorno della grande rapina di via Osoppo.

Un’azione da film americano. Tanto audace che ispirò poi un celebre film –L’audace colpo dei soliti ignoti“, appunto, uscito nel 1959- che per la prima volta fece identificare gli italiani nella parte dei malviventi (simpatici). Eppure allora non fu così e quella rapina nella periferia di Milano – obbiettivo: il furgone della Banca Popolare di Milano, carico di contanti – fu trattata come una sfida intollerabile alle autorità e alla pace dei cittadini.

La mattina del 27 febbraio 1958 la banda entrò in azione nella periferia Ovest della città, a ridosso della (attuale) “cerchia della 90-91”: dove oggi passano i filobus allora c’era il corso del fiume Olona, che era quasi confine visibile tra la città e la vicina campagna.
I banditi erano tutti vestiti in tute grigie da operai: il punto prescelto per la rapina al portavalori era l’incrocio tra via Osoppo e via Caccialepori, una zona che consentiva l’audace manovra dei veicoli (quattro, tutti rubati e con targa falsa) usati dai ladri.

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La zona di via Osoppo in una carta prebellica (qui l’originale completo): al centro dell’immagine, segnato in azzurro, si riconosce il corso dell’Olona, allora scoperto

Alle 9.23 scattò l’agguato: guidata da Arnaldo Gesmundo, una Fiat 1400 beige attraversò lo spartitraffico, all’epoca non asfaltato e privo di pali e altri ostacoli, e tagliò la strada al furgone. Gesmundo – poi soprannominato “Jess il bandito” – aprì la portiera e saltò nell’erba, mentre l’auto a bassa velocità finì contro il muro di un palazzo. Il furgone blindato si rimise in moto ma fu speronato dal secondo mezzo, un camion Om Leoncino.

Il guidatore, Arnaldo Bolognini, spaccò un finestrino posteriore del furgone con un colpo di martello e disarmò l’agente di guardia, Mario Tedesco, strappandogli via il mitra. «Hanno sempre scritto che l’ha colpito con il martello in testa, ma non è vero. Anzi, l’agente passò i suoi guai per essersi fatto disarmare» ha sostenuto l’arzillo Gesmundo (88 anni), durante un incontro inserito nel programma della mostra Malamilano, a gennaio 2018.
Neutralizzato l’uomo di guardia, la banda urlò “mani in alto” al commesso e all’autista della Bpm. Fuggirono poi in auto, si diressero verso Nord, cambiarono veicolo in Corso Sempione, si rifugiarono in via Chinotto, tornando cioè nella zona Ovest della città, non lontano dal luogo del colpo.

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La ricostruzione degli uffici dattiloscopici della Polizia, come è stato proposto nella mostra Malamilano, allestita a Palazzo Morando da novembre 2017 all’11 febbraio 2018

Il quotidiano La Notte scrisse: «La nostra città si è messa alla pari con Chicago», quasi che quella rapina fatta di audacia e poca violenza potesse competere con la Strage di San Valentino.
E la caccia ai banditi fu dura. La ricostruzione ufficiale dice che furono beccati perché – con un errore da principianti – abbandonarono le tute da lavoro nel corso dell’Olona, ignorando che il fiume stava andando in secca perché erano in corso i lavori per la copertura nel tratto urbano (oggi, sopra, ci passa appunto la corsia preferenziale delle linee Atm 90-91). «Non è vero, storielle» sosteneva ancora Gesmundo. Che suggerisce – più o meno – che la banda fu tradita e che poi la polizia usò le maniere pesanti in particolare con amici e parenti, per far saltar fuori il bottino e tranquillizzare la popolazione sconvolta da quell’«incubo» che vide apparire anche un mitra residuato bellico (non usato).

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Era davvero un incubo, per i milanesi? Il 6 aprile 1958, dopo la cattura della banda, Indro Montanelli svelava una parte del clima di allora in un articolo sul Corriere della Sera: «Ufficialmente sì, tutti scrivono e proclamano che sono contenti (…). Ma, sotto sotto, senza osare dirlo o dicendolo a bassa voce, la maggioranza tifava per i rapinatori».

La mano della giustizia, però, fu pesantissima: per quattro auto rubate una rapina senza feriti veri («oggi ce la caveremmo con poco»), i membri della banda presero condanne durissime ed esemplari, quasi fossero terroristi: Luciano De Maria prese 20 anni e 8 mesi; Enrico Cesaroni la mente del colpo, 18 anni e 4 mesi; l’ex partigiano Ugo Ciappina 17 anni e 2 mesi; Arnaldo Gesmundo, “Jess il bandito”, di via Padova 14 anni e 3 mesi; Arnaldo Bolognini 12 anni e 6 mesi; Eros Castiglioni 11 anni e 10 mesi; Ferdinando Russo (“Nando il terrone”, scrivevano allora i giornali, senza nessuna remora) 9 anni e 8 mesi.

Condanne in gran parte scontate davvero in carcere, allora durissimo, in strutture ottocentesche e senza servizi. «In carcere a Procida eravamo divisi per “famiglie”, l’unico con cui potevo parlare era del Nord, un bolognese. La biblioteca aveva solo pochi libri sulle vite dei santi, non s’imparava niente che fosse utile per dopo, per quando uno usciva» raccontava ancora Gesmundo, ricordando la disperazione dei sottoproletari detenuti, incapaci di fare qualunque lavoro. La condanna di Gesmundo fu pesante anche perché sommarono quella per furto di un veicolo a quella della rapina in sé: «Ho iniziato a chiedere libri, per iniziare a studiare diritto in carcere, per fare appello». E negli stessi anni iniziò una fitta corrispondenza con il giornalista Franco Di Bella, primo cronista del Corriere sulla scena di via Osoppo, poi direttore in via Solferino. Dotato di grande intelligenza, Gesmundo in carcere cambiò letteralmente vita, uscendo di galera più consapevole (è morto nel maggio 2020, a 90 anni).

Ma perché la rapina – bottino ingente, audace, ma anche una delle tante nella storia di Milano – fece così notizia ed è così memorabile?
Lo raccontava nel 2018 proprio la mostra “Malamilano”, nel suo quadro complessivo: il fatto è che – nelle statistiche e nella percezione di allora – gli anni Cinquanta a Milano erano anni tranquilli, con poca violenza politica in piazza (quella che sarebbe esplosa già nel 1960, con le proteste contro il governo Tambroni a Genova e Reggio Emilia) e ancora senza le bande organizzate, come quelle successive di Vallanzasca e Turatello. Nè tantomeno c’erano le mafie, se non con singoli esponenti mandati a tastare il terreno, per così dire.

Nello stesso tempo, la violenza quotidiana era ancora viva nella memoria dei milanesi, una paura interiorizzata: il 1945-49 era stato un periodo molto violento, tra rapine, vendette e regolamenti di conti, furti per fame. È così ogni dopoguerra, anche se poi nella memoria collettiva rimane solo lo sforzo della ricostruzione, del rilancio, delle speranze di rinascita. Insomma: la rapina di via Osoppo fece scalpore perché interruppe un periodo di tranquillità, in una città dove però ancora era vivo il ricordo della violenza degli anni della guerra e del dopoguerra.

Sempre Indro Montanelli, poi, suggerì nel suo celebre articolo anche un’altra lettura, partendo da quella nascosta simpatia dei milanesi per i banditi: «I rapinatori di via Osoppo ci avevano dato l’illusione che l’Italia stesse uscendo da questo stadio arcaico. Nel campo del delitto, d’accordo. Ma cosa conta da dove si comincia? L’importante è cominciare, pensava la gente. Da cosa nasce cosa».

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 27 Febbraio 2018
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