“Stefano Binda si drogava, non poteva essere a Pragelato”

La doppia vita dell'imputato, raccontata dagli psichiatri che lo hanno incontrato. La tesi del dottor Mantero però è stata contestata dalla difesa

Processo Lidia Macchi

Stefano Binda aveva già da giovane disturbi della personalità di tipo borderline. E si drogava fin dal 1983 quando aveva solo tra i 16 e i 17 anni. Una tossicodipendenza, la sua, voluta, quasi desiderata, secondo quanto ha raccontato in aula una psichiatra che lo ebbe in cura Brescia nel 1994, dopo che fu aiutato dalla comunità di Cl ad affrontare la sua dipendenza dalle droghe, grazie alla permanenza in una comunità chiamata Pinocchio.

La psichiatra che lo ebbe in cura, Bianca Maria Zanetti, è stata ascoltata come teste della pm Gemma Gualdi. Ha raccontato che Binda, fin da piccolo, ebbe alcune particolarità caratteriali. A 12 anni era un bimbo obeso, mentre durante l’infanzia fu protagonista di un curioso episodio, mise in moto l’auto del parroco e andò a sbattere contro il muro: “Per un impulso a trasgredire”, disse l’imputato nel 1994.

Fu più o meno a 17 anni che decise di divenire un tossico. Si definì “un tossico anomalo”, raccontò che lo volle, quasi come sfida, che ci mise un anno per imparare a bucarsi. Trapelarono, poi, dal suo racconto anche alcune esperienze omosessuali, e il dolore per la morte per overdose di un caro amico, Fulvio Luzzardi. “Mi ha tradito, mi ha lasciato solo” riferì Binda, turbato, alla dottoressa. La diagnosi fu dunque di “tratti isteroidi, disturbi della personalità di tipo borderline”.

Testimonianza Stefano Binda processo Lidia Macchi

Stefano Binda
Vi fu successivamente l’episodio di un test, in cui fu mostrata a Stefano un’ immagine di una donna seminuda a letto e un uomo in piedi che si copre il viso. Binda disse che gli sembrava rappresentasse un delitto, ma la psichiatra ha sottolineato che è una risposta normale (e in effetti vedendo il disegno è davvero possibile pensare a un delitto poiché la donna ha un braccio inerte che cade verso il basso).
Processo Lidia Macchi

Più articolata la deposizione del consulente, lo psichiatra Mario Mantero, a cui la procura ha chiesto di tracciare una perizia psichiatrica in corsa dell’imputato. Durante quattro incontri in carcere, nelle scorse settimane, il consulente ha parlato con Binda e ha tratto alcune conclusioni a tinte fosche.
Binda, per il dottor Mantero, ha un disturbo di personalità a cavallo tra narcisistico e antisociale. Sarebbe una personalità affabile, piacevole, seducente, loquace sul piano superficiale, a cui corrisponde però una scarsa qualità di empatia relazionale, poco interesse nell’altro, una tendenza alla manipolazione e alla bugia, un senso di superiorità, e la tendenza a usare l’altro ai propri fini. Un quadro lontano dalla normalità.
Udienza Lidia macchi con Fontana e grafologa

Il giudice Orazio Muscato, presidente della corte d’assise
Lo psichiatra ha detto che si tratta delle caratteristiche cliniche generali di quella patologia che però sono associabili anche a questo caso. Una descrizione che gli avvocati della difesa, Patrizia Esposito e Sergio Martelli, hanno cercato di smontare nel loro controinterrogatorio.
L’ALIBI
In particolare, lo psichiatra si è spinto a ipotizzare che Binda, già dedito al buco nel 1987, difficilmente può aver partecipato alla gita di Pragelato di quella vacanze natalizie; la sua tossicodipendenza non era compatibile con la permanenza in una camera di albergo con altri ragazzi. Perchè? Poiché ne sarebbe stato scoperto il suo vizio segreto: la droga.

Dunque, la tesi è che l’alibi dell’imputato (“Ero a Pragelato, seppi dell’omicidio appena sceso dal bus al ritorno a Varese”) non reggerebbe. Ma la difesa ha ribattuto che Binda partecipò anche ad altre vacanze di Clielle e non si preoccupò mai di saltare le cosiddette “vacanzine” per paura che gli altri sapessero del suo vizio.

Altro cambio di scena. Il consulente dell’accusa ha citato alcuni episodi in cui egli ha ravvisato la doppia vita di Binda. Primo: nell’autunno 2016 in carcere a S. Vittore vi fu una perquisizione da cui emerse la presenza di un telefonino, tra i detenuti che lavoravano in biblioteca. La direzione revocò il lavoro a tutti e anche a Binda, che però non era il responsabile della trasgressione, bensì semplicemente uno del gruppo. In secondo luogo: durante una perquisizione nella sua cella a Busto Arsizio vennero trovate, in un pacchetto di sigarette, 45 pastiglie di un farmaco, Gabapentin, che egli aveva deciso di non ingerire. Secondo lo psichiatra, in alcuni testi, si dice che i carcerati lo inalano perché farebbe un effetto simile alla cocaina. Ma la difesa ha ribattuto che dopo il cambio di apparecchio per curare la sua necrosi al braccio non ebbe più bisogno di prendere la dose pomeridiana del farmaco, un antiepilettico, e quindi conservò le pastiglie.
In un altro passaggio Mantero ha parlato di un abuso di alcol, che però ai difensori non risulta.

“Il tema della doppia vita è centrale nell’imputato” ha riferito poi in un passaggio centrale il consulente: da una parte ciellino, dall’altra drogato. Sul suo rapporto con un’altra psichiatra che lo aveva preso a ben volere ha detto: “Quando una donna si avvicina e oltrepassa un certo punto di sicurezza il signor Binda sembra allarmarsi”. Ma si tratta della stessa consulente che ha rivelato in aula, contro il suo volere, la supposta omosessualità, suscitando la rabbia dell’imputato per la violazione della sua privacy. In definitiva tante suggestioni, ma nessun fatto specifico che riconduca al delitto.

Processo Lidia Macchi

Anche l’ultima deposizione dell’istruttoria dibattimentale, quella di Lelio Defina (foto), l’ex ragazzo di cielle che secondo una testimone avrebbe detto di essere l’assassino, è risultata essere poco più di un equivoco. “Non l’ho mai detto e non conosco la persona che ve lo ha riferito” ha affermato davanti ai giudici. Sono nulle anche le ultime analisi le del dna per capire chi abbia leccato la lettera anonima invita ai genitori di Lidia. Si riparte il 20 marzo, con la requisitoria dell’accusa.

Roberto Rotondo
roberto.rotondo@varesenews.it
Pubblicato il 20 Febbraio 2018
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