Processo Uva, le ragioni dell’assoluzione in Appello

Tre i momenti in cui la Corte scompone i fatti: dalla tarda notte di via Dandolo alla morte al reperto di psichiatria, il mattino dopo

Avarie

“Il fatto non sussiste”. La sentenza della corte d’Assise d’Appello di Milano è stata appena depositata ed ha suscitato interesse la notizia che conteneva i ragionamenti dei giudici portati a conoscenza del pubblico, che scagionano completamente gli otto imputati – poliziotti e carabinieri peraltro già assolti in primo grado – dall’accusa di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona ai danni di Giuseppe Uva. Un caso diventato nazionale perché fortemente mediatico.
Ma oltre al “flash” delle ore successive il deposito della sentenza, è interessante analizzare succintamente, ma più nel dettaglio, il ragionamento dei giudici che scompongono l’accaduto in tre momenti: i fatti in strada, quelli in caserma e in ospedale a Varese, dove Uva morì.

IN STRADA – I fatti vengono riassunti partendo da quanto avvenne in via Dandolo nella notte del 14 giugno 2008, quando la pattuglia dei carabinieri sorprende Uva e Biggiogero in strada mentre stavano spostando alcune transenne. Secondo la Corte è accertato che Uva ha già in corpo 2,31 grammi già alcool per litro di sangue. Sono circa le 3.
Cosa accade in seguito è noto: i due vengono invitati a rimettere a posto le transenne messe lì nei paraggi della chiesa della Madonnina in Prato per una festa che si sarebbe dovuta tenere il giorno successivo. Mentre Biggiogero esegue l’ordine dei militari, Uva è recalcitrante “Uva aveva da subito reagito alle loro richieste in maniera aggressiva contrariamente a Biggiogero”, scrivono i giudici. Un comportamento che produce due effetti: la richiesta di rinforzi, e la necessità di amamnettare Uva per portarlo in caserma.
In questa prima fase le motivazioni che scagionano l’operato dei militari riguardano proprio il loro operato: se avessero voluto “dargli quella famosa lezione che si ipotizza”, “ed essendo nelle migliori condizioni per farlo” non avrebbero di certo chiamato “addirittura in aiuto dei testimoni, per di più nemmeno appartenenti alla medesima Arma”.

IN CASERMA – Biggiogero e Uva arrivano alla caserma dei carabinieri di Varese, in via Saffi, il primo a bordo di una volante della polizia, il secondo in un’auto di servizio dei carabinieri attorno alle 3.45-3.50. Sempre secondo la ricostruzione scritta dai giudici, Biggiogero appare tutto sommato non agitato, chiama il padre Ferruccio al telefono alle 3.52. Uva invece è molto agitato, grida e si dimena. L’amico, che non lo vede, si preoccupa e chiama il 118 alle 3.57.
“Nella ricostruzione fatta dagli imputati Uva, che inizialmente sembrava essersi tranquillizzato tanto che gli erano state tolte le manette, aveva incominciato a gridare e a commettere atti di autolesionismo buttandosi a terra, picchiando il capo sul pavimento e agitando le gambe”. Biggiogero, però, non vede materialmente ciò che sta avvenendo all’amico poiché si trova in un’altra stanza, nella sala d’aspetto.
L’ambulanza del 118 viene fermata, (“sono due ubriachi, ora gli togliamo il telefono” dice il piantone all’operatore della centrale operativa 118 che sta gestendo la chiamata) ma i militari telefonano in ospedale poco dopo e chiedono l’intervento di una guardia medica. Sono le 4.15 e il dottor Noubissiè, dopo la visita del paziente chiede un trattamento sanitario obbligatorio consultandosi con un collega, alle 5.16.
Uva in questo frangente per i giudici non rimane mai solo e le manette gli vengono messe in tutto tre volte (già in strada, ma due volte in caserma, per evitare atti di autolesionismo) ma gli sono state anche tolte all’arrivo del capoturno della polizia che, giunto in caserma e senza nulla sapere dell’accaduto, cerca di tranquillizzare l’uomo in stato di agitazione psico motoria.
“Le necessità operative che vengono contestate come carenti nell’imputazione – scrivono i giudici – furono quindi inizialmente quelle, legittime, di identificazione e successivamente quelle sanitarie, peraltro verificate da soggetti legittimati e competenti, quindi non addebitabili a carabinieri e poliziotti”

LA FASE IN OSPEDALE – Mentre Biggiogero torna a casa si compie il tso su Uva: l’ambulanza arriva in pronto soccorso alle 5.41, con al seguito le due volanti della polizia. Il codice triage (dove vengono smistati i pazienti a seconda della gravità) è verde – non grave – e sulla scheda paziente è riportato “stato di agitazione psicomotoria”. L’infermiere al triage domanda diverse volte alla persona che si trova di fronte cosa avesse fatto allo zigomo destro, e la risposta ricevuta era di essersi prodotto da solo quel segno. La domanda viene ripetuta anche in assenza del militare presente; la risposta è identica: “Me lo sono fatto da solo, cadendo”.
C’è un frangente, in Ps, dove Uva viene notato da un’ausiliaria, che viene reputata dalla corte come non attendibile.
Viene poi visitato da un medico alle 6.03 e subito dopo da una dottoressa, la psichiatra di turno arrivata alle 6.21. Ad Uva vengono somministrati dei farmaci, vengono fatti esami del sangue e lastre e poi, alle 9.15 avviene il trasferimento al reparto di psichiatria dove un terzo medico gli somministra “ulteriori farmaci” prescrivendogli un elettroencefalogramma che mai farà: alle 10 Giuseppe Uva ha cominciato a diventare cianotico e a perdere il polso, e alle 11.10 sopraggiungeva la morte, dopo inutili manovre rianimatorie.
Successivamente verrà effettuato l’esame sul corpo di Uva per indagare nello specifico l’ipotesi di un violento pestaggio precedente la morte, esame che non ha evidenze di traumi agli organi o fratture. Sarà solo con la riesumazione del cadavere, nel 2011, e con un esame tac specifico, che verrà individuata la causa del decesso: un prolasso mitrale, patologia di cui Uva soffriva a sua insaputa.
Le conclusioni della corte legate a questo “terzo momento” – in ospedale – della vicenda “sono emerse plurime prove che Giuseppe Uva si fosse procurato ecchimosi ed escoriazioni che sono state rinvenute sul suo corpo a causa delle sue condotte autolesive, nulla invece ha provato la riconducibilità di quei segni sul suo corpo a comportamenti di ‘indebita manomissione’ posti in essere da altri”

LO STRESS – “Una volta esclusa la riconducibilità della morte di Giuseppe Uva a condotte qualificabili come lesioni o percosse da parte degli imputati – scrivono i giudici – occorre verificare se, alla luce delle conclusioni peritali, lo stress individuato come causa della fibrillazione (e il successivo cedimento del cuore affetto dalla grave patologia) possa essere stato provocato da una delle diverse condotte descritte nelle imputazioni”.
Più avanti, su questo punto, la Corte arriva alla conclusione: “Se si parla di stress, occorre tenere conto anche degli altri fattori sicuramente stressogeni intervenuti, quali la contenzione sanitaria, il tso, il ricovero ospedaliero”.
“Né si può sostenere, come ha fatto il Procuratore Generale, l’irrilevanza della efficacia causale da attribuirsi a ciascuno dei diversi fattori concorrenti sul presupposto di una sostanziale equivalenza dei suddetti: prima di tutto per l’oggettiva incertezza di cui si è detto (gli stessi periti hanno parlato di ‘possibilità’), e poi perché non si può nemmeno sostenere che se i carabinieri avessero lasciato stare Giuseppe Uva quella sera, e fatto finta di non accorgersi della strada bloccata, questi non sarebbe egualmente morto”.
A sostegno di questa tesi una consulenza tecnica citata in ultimo nelle motivazioni “sui 650 casi di morte aritmica da fibrillazione ventricolare, 45 avevano (come Uva) un prolasso mitralico, e di questi soltanto per 9 la morte era sopraggiunta per un documentato trigger, mentre gli altri erano deceduti ‘a riposo’”.

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Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 03 Agosto 2018
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