“In Italia abbiamo un’informazione isterica”

Tomas Miglierina, 48 anni, vergiatese, è corrispondente da Bruxelles per la Radio televisione Svizzera. Nell'intervista racconta come vede la rivoluzione digitale nel sistema dell'informazione

Generico 2018

“Essere sempre connessi offre opportunità, ma è anche un limite. Per dare senso alle cose occorre tempo, serve fermarsi. Un giornalista o si carica, o si scarica; o ascolta, o parla; o legge o scrive. Con il digitale la pressione è continua”.

Tomas Miglierina vive a pane e giornalismo da quando ancora portava i calzoni corti. Una passione per la tecnica, ma soprattutto per mettere il naso laddove succedono le cose. Quarantotto anni, vergiatese, vive a Bruxelles dove dal 2003 è corrispondente per RSI. Ha iniziato a fare il giornalista a 14 anni a Radio Busto Music. Due anni dopo era già pubblicista e dopo varie collaborazioni con Prealpina, Antenna 3, tre anni da freelance dai Balcani e una lunga esperienza in Bosnia, nel 1998 è stato assunto alla RSI.

Con una lunga esperienza in giro per il mondo, è stato corrispondente anche da Washington per due anni, ha lavorato due settimane nella redazione web della Radio televisione svizzera.

«Ho scelto volontariamente di uscire dalla mia “comfort zone” per andare a vedere un mondo che non conoscevo da dentro. Ho collaborato spesso con i miei colleghi, ma è diverso stare dentro la macchina».

Come è andata?

«Molto interessante. Mi ha permesso di conoscere meglio potenzialità, opportunità e criticità di questo lavoro. Il web è un cantiere sempre aperto. In più non esiste un altro media che ti permetta di conoscere in tempo reale cosa sta facendo il tuo pubblico. Con vari strumenti di analisi scopri quante persone ti stanno leggendo, da dove, con quali device, da dove arrivano. Se ci si pensa bene con gli altri mezzi è come scrivere un messaggio e affidarlo a una bottiglia per distribuirlo. Oltre a questo c’è l’interdipendenza tra testo, immagini, video e audio».

Ma sono cose di 10 anni fa…

«Si, ma io, come moltissimi colleghi, non ci avevo mai lavorato. Le conoscevo, ma stare dentro la macchina è un’altra cosa».

Parlavi di criticità…

«Sono legate alle potenzialità e alle opportunità. Una sorta di altra faccia della medaglia. Si è sempre aggiornati, ma si resta schiacciati sul presente. Se pensiamo alla nostra vita quotidiana è un po’ come non avere orario dei pasti e continuare a cucinare e mangiare. Quando io sono in vacanza mi godo la lettura dei giornali e poi stacco. Questo mi permette di avere una prospettiva. Se mettiamo il naso davanti a un quadro non ci permette di godere dell’opera. Nel giornalismo vale lo stesso. Il rischio del web (dovunque) è essere troppo schiacciati sull’istante…»

Si ma la tv con tutte le sue dirette non ne è responsabile?

«La tv oggi corre dietro ai tempi del web. Così come gli altri media in passato correvano dietro alla tv. Ne abbiamo una continua prova dal fatto che per qualsiasi notizia di cronaca arrivano prima i social, e le stesse tv le prime immagini le prendono dalla rete ed arrivano dai cittadini. Sempre online è una potenzialità, ma anche un grande limite».

Come è cambiato il rapporto con i cittadini?

«Questo poter conoscere cosa fa il tuo pubblico da una parte è bello. Se facciamo questo lavoro vogliamo esser ascoltati, ma c’è un forte rischio. Dovremmo seguire il consenso? Sono davvero così importanti likes e clicks? Se fosse così dovremmo riempire i giornali di gattini e semplici curiosità. Per noi che abbiamo un mandato servizio pubblico la questione è ancora più delicata».

Che rapporto hai con i social?

«Uso molto Twitter per ragioni professionali. Nessun commento e solo informazioni utili. Una sorta di strumento come consiglio di lettura. Ho un account su Facebook, ma lo uso poco e solo con amici che conosco. Malgrado queste accortezze stringenti, mi chiedo spesso se il giornalista debba stare sui social, o se non sia meglio ignorare un po’ i commenti dei lettori. Io faccio informazione e non comunicazione e la differenza è netta. L’informazione è unidirezionale: io ho accesso ai fatti e tu no. Non perché sono più bravo, ma perché è il mio mestiere raccontarti i fatti. Poi i commenti falli tu. In un mondo dove chiunque può comunicare direttamente col pubblico, il nostro ruolo diventa ancora più importante: di trasmissione critica. Viviamo una rivoluzione simile all’avvento della fotografia: non c’era più bisogno di ritrattisti, ma da lì nacque l’arte moderna. Oggi corriamo il rischio di correre solo dietro ai likes, ai clicks. E poi tutti sono editorialisti mentre di gente messa a cercare i fatti ce ne è sempre meno. I social in tutto questo rischiano di essere una “distrazione”. Faccio un esempio: il mio lavoro su quanto accaduto a Genova non dovrebbe essere chiacchierare sul web, ma andare a cercare i documenti, scavare nel passato…».

I social però hanno accorciato la distanza tra pubblico e giornalisti…

«Certamente e questo sarebbe bene se servisse a contattare i giornalisti e non a vomitargli addosso il disprezzo. Il giornalista non è come un sacco d’allenamento, dovrebbe essere come una levatrice: tirar fuori le cose che la gente non mette sui social “motu proprio”, ed è noto che più il bimbo è grosso, più il parto è difficoltoso. Il mio lavoro non è intrattenere un dialogo con il lettore».

Quali altri rischi vedi oggi?

«La rete ha la pericolosa tendenza di trasformare il giornalista in editore di sé stesso. Questo è un grande rischio perché il buon giornale è un’opera collettiva e richiede un lavoro collaborativo dove ci sia sinergia tra colleghi. Nella mia vita professionale le maggiori soddisfazioni le ho avute quando c’è stato buon lavoro di squadra della redazione, non dalla mia semplice attività. L’altro rischio è di non uscire più, di fare tutto al desk. Ma solo uscire ti consente di vedere le cose davvero. Guardi in faccia le persone, noti le espressioni, il dolore, la gioia e non solo un testo che arriva asettico in redazione».

Sembra non piacerti per niente l’idea del giornalismo partecipativo con il ruolo dei lettori…

«Io non ho niente contro il bricolage, ma credo che non tutto possa esser fatto in quel modo. Non ho niente contro chi racconta, ma l’informazione è una cosa diversa e deve esser gestita in modo professionale. Questa idea che i giornalisti siano una casta, mentre i non professionisti siano puri è una gigantesca stupidaggine, anche se ci sono casi di giornalisti che andrebbero radiati dall’ordine. Ma sono casi individuali. L’altro giorno guardavo le pecore in un prato. Sanno distinguere l’erba buona da quella cattiva. Se mangiano la seconda muoiono. Se le persone non impareranno a fare la stessa cosa con la rete sarà la fine della democrazia, che si basa sulla fiducia. Non ho niente contro le chiacchiere, ma il giornalismo dovrebbe essere altro. E poi è passata l’idea che l’informazione possa essere gratuita. Un assurdo. Fare giornalismo costa. Qualcuno di noi si fiderebbe di un ristorante che offra sempre pasti gratis? Penseremmo subito che c’è qualcosa che non va».

Parlare di Europa dovrebbe esser parte di quell’informazione basilare per la nostra vita e invece non è così. Perché?

«L’UE ha una parte di responsabilità nel non farsi capire, ma ormai è semplicemente prevalsa l’idea che le elites siano sbagliate e per definizione l’elite  più distante è l’Unione Europea. Oltre ci sono solo l’Onu e i marziani. Poi oggi vorremmo tutto semplice, l’esatto opposto di una realtà che deve mettere d’accordo 28 Paesi come l’UE. È normale che l’UE sia un po’ complicata. Peraltro il calcio ha delle regole complesse, ma alla gente piace e così non si lamenta e le impara le regole. Da ultimo c’è anche il fatto che spesso c’è una distanza temporale importante prima che quanto deciso a Bruxelles abbia un impatto sulla nostra vita reale. Ci vogliono mesi, a volte anni. Se oggi abbiamo le compagnie aeree lowcost, se telefoniamo senza pagare il roaming, se possiamo bere le birre belghe in Italia o il chinotto italiano in Estonia ecc… ecc… è perché dietro c’è un enorme sistema normativo che si chiama UE e che fa funzionare il mercato unico. Ma ci si pensa poco».

Beh, un po’ dipenderà anche da come si fa il giornalismo?

«In Italia c’è un modo di fare informazione isterica, perché alcune  persone che occupano posti di responsabilità nei media, (quelle che decidono cosa si scrive o no) sono ignoranti, ciniche e intrinsecamente cattive. Anzi peggio: mediocri»

Marco Giovannelli
marco@varesenews.it

La libertà è una condizione essenziale della nostra vita. Non ci può essere libertà senza consapevolezza e per questo l’informazione è fondamentale per ogni comunità.

Pubblicato il 17 Agosto 2018
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Commenti

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  1. Avatar
    Scritto da Waldo Butters

    D’accordo in tutto, soprattutto sull’ultima domanda…

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