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Gli emiliani e il Varesotto: un incontro di esperienze narrato da cinque “foresti doc” venuti dalle terre del Lambrusco. Il miracolo è riuscito: Don Camillo e Peppone si sono seduti allo stesso tavolo

Tra la via Emilia e il Verbano


L’Emilia: se non ci fosse bisognerebbe inventarla. E non solo per i saporiti prosciutti o l’inimitabile parmigiano. Di questa terra ricca e sanguigna, da sempre luogo di fecondi contrasti, e della sua interazione con Varese e la sua provincia hanno parlato alcuni personaggi che, emiliani di nascita, hanno trovato da queste parti casa, lavoro, affetti.

Erano con noi per questa rimpatriata ideale Ruffino Selmi, presidente delle ACLI per la provincia di Varese, Cesare Lorenzini, presidente di Confesercenti, il direttore dell’Associazione Artigiani Marino Bergamaschi, Vito Tioli, presidente Fidimpresa ed ex presidente Cna, e Sandro Zaccarelli, presidente dell’Inps di Milano ed ex segretario generale della Cgil a Varese. A coordinare il dibattito era Gianfranco Giuliani della Prealpina.

«Dall’Emilia con furore: Varese può diventare “calda”»? era il titolo dell’incontro, e subito, dalle testimonianze dei relatori, si sono notate due cose: da un lato lo smisurato amore per la terra d’origine di persone che spesso vivono qui da oltre trent’anni, dall’altro l’asprezza del primo impatto degli emiliani con Varese, una realtà molto differente sotto vari aspetti. Diverse sono le strade che hanno condotto questi emiliani quassù. C’è chi, come Selmi, si è trovato qui per ragioni di studio, all’Aloisianum di Gallarate, chi come Bergamaschi è giunto come sindacalista, persino chi è arrivato a Milano sull’onda di una delusione d’amore. Per alcuni abbandonare il piccolo mondo antico dell'Emilia, come lo ha definito il direttore dell'associazione artigiani, è stato  difficile, ma necessario. E, sorpresa delle sorprese,Varese diventa il punto d'incontro dei furesti, un luogo cosmopolita sì, ma dove prima c'è il dovere e poi il piacere. Quindi se si arriva a casa dopo una giornata di lavoro infruttuosa, si va a letto a dormire per rigenerarsi e ricominciare, tralasciando le delizie della carne.

Comune a tutti è stato il riconoscimento delle differenze fra la terra d’origine e quella in cui oggi vivono ed operano con successo. Da un lato le cooperative rosse e quelle bianche, i parroci alla don Camillo e i sindaci comunisti alla Peppone, l’agricoltura ricca e generosa sì, ma frutto di duro lavoro e sacrifici, la gente sempre pronta a socializzare e discutere; dall’altro la provincia lombarda chiusa su se stessa ed il proprio indefesso sforzo lavorativo, teso a massimizzare l’utile e promuovere socialmente il singolo lavoratore, il self-made man bosino o bustocco. Dall’incontro di persone come Selmi, Lorenzini, Bergamaschi, Tioli e Zaccarelli con la nostra realtà, i suoi limiti e le sue opportunità, è nato indubbiamente qualcosa di nuovo. Il riconoscimento che, sì, Varese è chiusa per tanti versi, e ancora tanto ha da cambiare nell’atteggiamento (altrimenti perché Lorenzini ogni tanto deve scendere a Bologna «per ricaricare le batterie di allegria e tornare a sorridere?»); ma anche la consapevolezza che la fusione tra l’idea nostrana di promozione sociale attraverso il lavoro, e quella emiliana ( ma non solo!) di mutualità e cooperazione è un dono che i “foresti” ci portano, e di cui bisogna approfittare… “a ufo”. Insomma: «Non di solo lavoro si vive, ma anche di socialità» come correttamente ricorda Selmi. E verso i “foresti” o “fuasté” di varia provenienza, non bisognerebbe mai intendere l’integrazione come appiattimento e assimilazione totale; troppo andrebbe perduto.

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