La signora Fisher,
miliardaria di Palm Beach, Florida, ci teneva tanto ai suoi
stucchi. Aveva sentito parlare di un’azienda italiana,
varesina per la precisione: Mimosa. La prima spedizione, metà
anni novanta, quattro lavoratori, non fu molto fortunata.
Claudio Mezzanzanica e suoi stuccatori entrarono nelle
lussuose sale della facoltosa famiglia. La commissione
comunale che doveva accertare l’inizio dei lavori, rilevò
che mancava qualche vite nelle pareti di carton gesso. Tutti a
casa, ma il viaggio fu spesato. La signora, aveva trattenuto i
soldi a chi aveva sbagliato il lavoro. I varesini, dalla
signora Fisher ci tornarono, e fu la prima avventura americana
di un imprenditore varesino e dei suoi artigiani.
Una storia che dice già due cose: gli americani impazziscono
per l’italian style; il business, per gli yankees, è una
cosa tremendamente seria: chi sbaglia paga, chi esce per
lavoro guadagna, punto.
Il varesino a stelle strisce, Claudio Mezzanzanica, ha
raccontato sul palco di “Anch’io”, insieme alla collega
Stefania Radman, durante la kermesse del nostro giornale on
line, gli affari, visti da una piccola impresa coraggiosa.
L’imprenditore varesino è uno dei pochi artigiani nostrani
ad aver tentato la carta americana. Per Varesenews è
una vecchia conoscenza, perché fu proprio grazie alle
strutture della sua azienda che il giornale potè seguire, con
un curioso speciale, la maratona di New York del 2003. Nata
nel 1981, Mimosa lavora inizialmente negli stucchi e
nell’arredamento d’interni tra Milano e
Varese. Negli anni novanta inizia a collaborare con la
grande catena di abbigliamento Esprit, per la realizzazione
dei punti vendita. Lavora in tutta Europa, poi sbarca negli
Usa.
Per lavorare in America devi imparare le regole: «Sei
costretto ad aprire una società negli States – spiega
Mezzanzanica - perché i sistemi fiscali sono troppo diversi,
però gli americani sono lineari, è la burocrazia italiana a
non capire le imprese che vanno all’estero. Dovremmo essere
supportati da una attività di lobbing, da un sistema paese,
invece lo stato italiano non sembra interessato a questo
problema».
Due controlli annuali, un funzionario che fa domande precise e
incalzanti ma senza dietrologie, e la quasi impossibilità di
fare “nero”. «Il sistema del business americano crede
molto nella trasparenza – continua l’imprenditore varesino
– io spesso dico a chi mi chiede consigli che il nero se lo
possono scordare, e questo, devo dire la verità, a volte
scoraggia gli italiani».
La grande america però è lì. Basta saperla capire e avere
coraggio. Mimosa porta a lavorare nei negozi Usa manodopera
italiana, culturalmente e manualmente superiore, ma dagli Usa
ha imparato la chiarezza. E la consapevolezza che il nostro
sistema imprenditoriale e finanziario è ancora arretrato,
poco propenso al rischio di impresa, forse un po' provinciale
e bisognoso di una grande dose di umiltà se vuole far fruttare
quel patrimonio culturale che impregna ogni nostro prodotto,
dalla moda agli alimentari.
All’incontro avrebbero dovuto partecipare anche altri due
imprenditori che guardano oltreoceano: Vito Artioli e Denis
Buosi. Ma il panorama dell’export a stelle e strisce, per le
imprese varesine, è davvero a corto raggio. Solo il 6% delle
esportazioni della nostra provincia è rivolto agli Usa. «Io
mi faccio delle domande – racconta Mezzanzaniza – e
azzardo una riflessione: ma se un bar come il Buosi, diciamo
così per semplificare, va in America, perché non possono
provarci anche altre imprese più strutturate? Credo che il
tempo del lavoro garantito, a Varese, sia terminato. Bisogna
avere il coraggio di rimettersi in viaggio, con la valigia in
mano. Per Varese è una rivoluzione copernicana, che
presuppone il liberarsi da una certa supponenza, o dall’idea
che bene o male il lavoro verrà sempre a cercarci».
|