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Banalità, potenza e circostanze del male

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27 Aprile 2009

Se si volge lo sguardo dagli eventi più atroci della storia mondiale, come lo sterminio degli ebrei e il rogo atomico di Hiroshima e Nagasaki, ai fatti della cronaca nera italiana, come, tanto per citarne alcuni, il delitto di Cogne, il massacro di Erba e, recentemente, l’atroce assassinio di Dean Catic da parte di due giovani varesini, non mancano davvero le evidenze che sembrano attestare non solo la potenza, ma anche (e questo è forse l’aspetto più inquietante) la banalità del male. Perciò, seguendo le orme di quei dotti, come Pierre Bayle, uno dei massimi eruditi dell’età moderna, nonché insigne pioniere della critica biblica, o di quei pensatori, come Voltaire nel periodo illuministico, Stuart Mill in quello positivistico e, in età novecentesca, il nostro Piero Martinetti, i quali, di fronte allo spettacolo angoscioso e ‘perturbante’ del male fisico e morale, hanno manifestato una forte propensione verso la dottrina del manicheismo, si sarebbe tentati, per dare al male un fondamento razionale e giustificarne l’esistenza sottraendolo alla sfera terribile dell’assurdo, di concepirlo come una realtà metafisica, ossia un’entità autonoma, e non, secondo quanto afferma la dottrina cristiana, come ‘defectus boni’, ossia assenza di bene: concezione, questa, che sembra rivelare, da parte della Chiesa e del cristianesimo, una sorta di riluttanza e quasi di paura a comprendere il significato e la portata del male.
   D’altra parte, quale problema si è dimostrato maggiormente irresolubile di quello che si riassume nella cruciale domanda: “Si est Deus, unde malum?” (‘Se Dio esiste, da dove nasce il male?’). Domanda a cui un Padre della Chiesa come sant’Agostino, nel vano tentativo di conciliare l’attributo dell’infinita bontà di Dio con l’irrefutabile potenza del Male, finì col dare risposta ricorrendo ad una dottrina, la doppia predestinazione, non dissìmile dal manicheismo, corrente religiosa dualistica e razionalistica a cui il grande teologo cristiano aveva aderito nella sua giovinezza.
   In realtà, ciò che colpisce è che tante persone dimostrino verso il male un tale grado di assuefazione, per non dire d’insensibilità, da non riuscire più a percepirlo nel suo sorgere (come segnalava con preoccupazione Primo Levi nel finale del saggio “I sommersi e i salvati”). Occorre, invece, abituarsi a guardare l’“uovo del serpente” che lascia trasparire dal suo guscio opaco la bestia terribile che nascerà (metafora, questa, usata da Ingmar Bergman come titolo del suo film sul nazismo).
   Del resto, è difficile negare che la circostanza più sconcertante, quella da cui dipende la banalizzazione del male e la conseguente paralisi del processo dialettico con le sue opposizioni e i suoi conflitti, è che le persone sembrano non avere più il senso del Bene e del Male, sino al punto di non percepire neanche la propria colpevolezza (come sembra che abbiano constatato le autorità inquirenti nel corso degli interrogatori dei due giovani assassini testé menzionati).
   In tal modo, grazie a questo niccianesimo d’accatto e al suo ‘maquillage’ in chiave ludico-narcisistica, approntato dall’accidiosa cultura del postmodernismo, il Male si espande a tal punto che investe anche le persone che sembravano buone. Quel Male la cui esistenza e la cui estensione sembrano procedere di pari passo con uno sviluppo tecnologico e scientifico, di cui sfuggono i fini, e con la congiunta regressione all’età adolescenziale, che tanti adulti coltìvano e che il sistema simbolico-pubblicitario in cui viviamo contribuisce potentemente ad alimentare.
   Tuttavia, il pensiero dialettico, che sa cogliere il punto magico dell’unità dei contrari e, proprio per questo, ha una sua profonda forza etica, ci ripropone, sbloccando così il processo del reale e ponendo in tensione i suoi poli, la domanda con la quale gli uomini si sono sempre dovuti confrontare e dovranno anche in futuro continuare a confrontarsi: vi è un bene anche nel male e vi è un male anche nel bene?
   Bisogna, allora, riconoscere che vi è un aspetto del Male, che non è stato mai abbastanza approfondito e sul quale converrebbe iniziare una riflessione matura: esso è quello espresso da Mefistofele nel “Faust” di Goethe (1808), quando questo dèmone si definisce «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene». E, dal canto suo, Hegel, il più grande dialettico dell’età moderna, il maestro di Marx e di Lenin, non ha forse affermato che «la storia avanza dal lato cattivo» e che «la schiavitù è la culla della libertà»?
   Se non si vuole, pertanto, accettare, a causa della sua radicalità e durezza, l’indicazione di Bertolt Brecht, secondo la quale «bontà oggi significa distruggere coloro che impediscono la bontà», sarà almeno lecito considerare con la dovuta serietà l’analisi e la proposta, in apparenza meno dure ma altrettanto radicali, di Lars von Trier, il regista di “Dogville”, che alla poetica dell’estraneazione, al teatro didattico e al pensiero marxista di Brecht si richiama esplicitamente: «Bene e male sono dentro di noi e sono le circostanze a fare uscire allo scoperto o l’uno o l’altro. Credo allora che dobbiamo lavorare sulle circostanze.»
 
 
 
Eros Barone

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