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Chiesa e “società di mercato”

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28 Agosto 2011

Egregio direttore,
Perfino la discussione sulla legittimità (e, data la crisi in corso, urgente necessità) dell’applicazione dell’Ici ai beni ecclesiastici dimostra quanto siano fievoli e timide le istanze laiche nella politica italiana. Se le note vicende erotico-giudiziario-sessuali del presidente del Consiglio non confermassero, con un’accentuazione tipicamente italiana, che l’ipocrisia è l’omaggio del vizio alla virtù, a giudicare dai crocifissi che pendono dalle pareti delle scuole, dei tribunali e degli uffici pubblici sembrerebbe invece di vivere in uno Stato di tipo salazarista, cioè confessionale e autoritario, fondato sul connubio fra il potere politico e il potere religioso. Sennonché, anche supponendo, come fa l’amico Antonio di Biase (cfr. lettera n. 336), di poter separare il discorso sullo Stato del Vaticano dal discorso sulla Chiesa cattolica, prescindendo perciò dall’aspetto politico-istituzionale e volgendo l’attenzione a quello storico-morale, siamo davvero sicuri che la religione sia un coefficiente dell’‘ethos’ civile? Basta una rapida rassegna della storia della filosofia (e della storia ‘tout court’) per convincersi del contrario.
Così, pur essendo debole come fondamento di un’etica, la maschera della religione, a giudizio di Locke, può alimentare ogni sorta di fanatismo. Nella storia europea spesso l’amore cristiano ha marciato a braccetto dell’odio teologico. E non è forse stato Agostino il primo teologo a teorizzare la possibilità di fare ricorso alla violenza per salvare il proprio fratello dalla perdizione? E non sono stati i teologi ad elaborare la dottrina della guerra giusta che prevede una netta divisione tra il territorio dei fedeli e quello dei pagani, oggetto di legittime acquisizioni territoriali? Oggi, perfino gli ossimorici “atei devoti” non si pèritano di affermare che senza i valori religiosi la società sarebbe preda del culto del denaro. Alla religione viene dunque riconosciuto il merito di essere un’etica positiva che riesce a mantenere solido il tessuto della convivenza. Una società senza fedeli (in Europa il 25% dei cittadini si dichiara non religioso e il 58% non è battezzato), si sostiene, se non è posta sotto la ferula ecclesiastica può degenerare nel caos e nell’edonismo.
Per questo genere di fautori della religione come supporto e conforto di una “società di mercato” sarebbe dunque auspicabile un rallentamento della separazione tra diritto e religione. Aveva dunque torto Alberico Gentile quando chiedeva ai teologi di tacere perché le questioni del diritto internazionale nulla avevano a che spartire con la fede e con la ‘potestas spiritualis’ della Chiesa? Sbagliava Hobbes a proclamare che l’autorità laica e non la verità religiosa è il fondamento della legge? Aveva torto Bayle a ipotizzare che «una società di atei potrebbe svolgere ogni attività civile e morale come qualsiasi altra società»? E anche Kant era in errore quando concepiva la categoria giuridica come autonoma dalla religione? I valori non sono quelli della Costituzione, si obietta, ma vanno rintracciati nei sacri testi o nel cuore. A questo punto, perché non proclamare la tradizione cristiana come fonte sussidiaria di diritto? In Israele questo è stato fatto con l’ebraismo.
Si afferma che la dignità umana è «il legato più inequivocabile e trasparente delle radici giudaico-cristiane della nostra civiltà» (Giuliano Amato ‘dixit’). Ma per capire quanto sia priva di fondamento la tesi di una erosione della schiavitù grazie al messaggio cristiano è sufficiente leggere Paolo di Tarso: «Tutti coloro che sono sotto il giogo della schiavitù stimino degni di assoluto rispetto i loro padroni». Nella storia della Chiesa a lungo è prevalsa la cautela nella stessa conversione del mondo pagano, importante serbatoio di schiavi. Più che la forza dell’amore cristiano, nel superamento della schiavitù ha pesato un altro elemento, molto più prosaico. Il sistema servile viene accantonato, come intuisce Adam Smith, perché «il lavoro fatto dagli schiavi è il più caro di tutti». L’amore e la carità ancora una volta sono il supporto e il conforto della “società di mercato”. Il diritto romano, estraneo alla pietà e alla teologia, aveva invece fondato l’istituto della manomissione degli schiavi.
Occorre, dunque, riconoscere che l’appartenenza all’umanità come fonte per il conferimento di diritti originari all’individuo è una conquista delle rivoluzioni moderne. Basti pensare alle legislazioni italiane preunitarie che, in nome della fede cristiana, prevedevano per gli ebrei i ghetti e un nastro rosso per il loro riconoscimento. La Chiesa è arrivata a riconoscere i diritti umani, ma non li ha certo fondati. Non può sussistere alcun universalismo dei diritti senza che siano eliminate dall’ordinamento giuridico-istituzionale tutte le componenti sacrali. Quel tanto di etica mondana che è presente in Europa non ha nulla a che fare con la fede, essendo piuttosto il risultato della lotta. Un risultato che non è nato dall’amore (a meno che non si consideri come un atto di amore la strage della notte di San Bartolomeo), ma dai rapporti di forza tra le classi sociali. Prova ne sia il fatto che le gerarchie ecclesiastiche continuano imperterrite, senza vergognarsi, a sostenere, in cambio di cospicui vantaggi economici e clamorosi privilegi giurisdizionali, un governo corrotto e corruttore e un sistema di potere putrido; prova ne sia il fatto che oggi nessun freno etico-religioso limita lo strapotere dell’impresa, che sta spazzando via quei principi di solidarietà che erano stati sanciti come diritti sociali. Ma tutto ciò non sembra contare più nulla per una sinistra moderata che guarda al futuro volgendogli le spalle.

Eros Barone

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